Pier Carlo Padoan – oggi deputato Pd – ha retto il ministero di via XX settembre, Economia e Finanze, dal febbraio 2014 al giugno 2018, dopo una carriera che lo ha visto vice segretario dell’Ocse e in precedenza Direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale per l’Italia. Un tecnico? Un tecnico dal cuore politico. «Un riformista duro e puro», ci confessa. Uno che ha scritto per Il Riformista dal 2003, «in modo sistematico», precisa. «Ritengo che il nostro Paese abbia bisogno di riforme importanti perché solo così si può migliorare lo stato di benessere dei cittadini e le prospettive per il futuro. Bisogna fare molte riforme e farle è difficile, politicamente, tecnicamente e culturalmente».

Quali resistenze culturali incontra chi fa il Ministro dell’economia?
La prima resistenza culturale è quella dell’inerzia, che è tanto profonda quanto più è debole l’economia; in una economia vivace le riforme sono più facili e più efficaci. In una economia semi stagnante sono più difficili ma sono ancora più necessarie.

C’è anche una resistenza culturale, ideologica da parte dei populisti in maggioranza?
La resistenza ideologica è diffusa e spesso si accompagna a una visione assistenzialistica del ruolo della politica economica.

A proposito di economia semi stagnante, lei ha dichiarato: «Non è difficile farsi dare risorse, il difficile è saperle spendere».
I soldi che arriveranno dall’Europa sono tanti. Saranno concessi ai Paesi a fronte di programmi di riforma credibili e osservabili. È tutta la capacità di un Paese che va coinvolta in questi casi. Ma il messaggio principale che vorrei condividere è che questo è nell’interesse del Paese, non è nell’interesse di qualcun altro.

Un appello affinché si accetti il Mes senza pregiudizi ideologici.
Un appello a una discussione magari complessa, ma in cui ci mettiamo d’accordo con chi vuole fare le riforme su quali riforme fare, e quando. Non è una questione di etichetta, tra riformisti e non riformisti. Credo non ci possa essere dubbio: il Paese va aiutato, ha grandi potenzialità e bisogna, da una lunga lista di riforme da fare, tirare fuori quella che è più efficiente fare subito, prima di altre cose.

Lei da dove partirebbe?
Io partirei da tre capitoli: una riforma profonda del sistema educativo, dalle elementari all’università; una riforma della Pubblica Amministrazione dal punto di vista dell’efficienza e una serie di misure di sostegno per le imprese, che hanno sofferto molto in questa crisi e sono il motore della produzione e della creazione di lavoro.

La misura del taglio del cuneo fiscale sarebbe adeguata?
Vediamo quale sarà la misura, per adesso non se ne parla, io sono dalla parte di coloro che dicono che bisogna tagliare il cuneo fiscale ma bisogna farlo all’interno di una riforma generale della tassazione.

Si prevede un autunno caldo. Cosa vede dal suo osservatorio?
Sono preoccupato. Anzi, dirsi preoccupati è un eufemismo. In autunno arriveranno a scadenza le misure che, sia pur con fatica, hanno tenuto in piedi il mercato del lavoro e l’occupazione. Ma erano misure temporanee che prima o poi devono essere eliminate, per essere sostituite con misure che permettano una ripresa della crescita e una ripresa dell’occupazione, che guardino in avanti piuttosto che badare a difendere l’esistente, anche se l’esistente ha preso uno shock negativo senza precedenti.

Approfitto dell’evocazione della parola shock. Serve un piano shock fatto di tanti nuovi cantieri, di opere pubbliche, di infrastrutture?
Guardi, in momenti come questi gli investimenti pubblici sono uno strumento potentissimo per far riprendere la crescita. Quello che ostacola gli investimenti pubblici oggi non è tanto la disponibilità di risorse, che sono state già stanziate, quanto il loro utilizzo: procedure, pianificazione, buoni progetti. Tutte cose che servono a fare buone infrastrutture e per questa via dare un volano alla crescita, in attesa che si riprenda anche l’investimento privato.

Non le sembra che le misure assistenziali volute soprattutto dal M5S rappresentino una scivolata sul piano della spesa pubblica da cui sarà difficile poi liberarsi?
Si potevano spendere meglio le risorse del reddito di cittadinanza, per non parlare di quelle per quota100.

Veniamo ad Autostrade. Secondo lei, tutto sommato, non un cattivo accordo.
È l’inizio di una soluzione che evita il peggio, cioè una situazione conflittuale tra le due parti, che deve essere ben governata per favorire la fuoriuscita dei Benetton dal capitale dell’impresa e sostituire quella quota in parte con capitale pubblico, con Cdp, ma anche eventualmente con altro capitale privato. Tutto ciò in un contesto nel quale ai cittadini deve essere messa a disposizione una infrastruttura sicura, con tariffe più basse ma anche con investimenti in manutenzione ordinaria e straordinaria importanti. Naturalmente bisogna far quadrare il cerchio, perché tutto ciò non è scevro da difficoltà di compatibilità, e quindi ora va visto come si mette in pratica concretamente.

Non sarà una nuova Alitalia?
Il caso di Alitalia credo sia il più eclatante di tutti. Dopo molti anni siamo ancora al punto in cui per salvaguardare un capitale italiano importante, siamo ancora alla fase dell’immissione di risorse.

È un buco nero.
Fino a adesso è stato un buco di cui non si vede la fine. Adesso ne vediamo il fondo e dunque cominciamo a riempirlo.

Una visione da politica economica decisamente “interventista”.
In questo momento, è vero, se si fa la lista delle imprese con il ruolo dello Stato come in Alitalia, la situazione è complessa. Risente in parte della debolezza strutturale dell’economia italiana e in parte dello shock del coronavirus. Bisogna che lo Stato, che ci sta mettendo tanti soldi, dica chiaramente che queste operazioni sono comunque temporanee, sia pure con tempi lunghi. E che si punta a mettere queste imprese in condizione di essere profittevoli, perché senza questa condizione non si possono abbattere le tariffe in prospettiva. E va data la possibilità di uscire da questa situazione di continuo rinvio dei problemi.

I Benetton hanno responsabilità accertate o no?
È un punto su cui la magistratura deve fare piena luce, innanzitutto per rispetto delle vittime. Se un ponte crolla, però è evidente che la manutenzione non era quella richiesta, quindi si deve accertare di chi è la responsabilità, anche per dare un segnale che le infrastrutture in Italia sono messe in sicurezza e non sono sull’orlo del crollo. Siccome abbiamo svariati esempi di infrastrutture che hanno funzionato male, bisogna scongiurare che si abbia questo timore diffuso.

La giustizia lenta rimane un freno per la crescita.
La giustizia è lenta e accellerare la giustizia è una priorità strutturale. Nel caso specifico di Genova non sono in grado di valutare se i tempi potevano essere accelerati. In ogni caso, anche per questa ragione, la decisione raggiunta pochi giorni fa è una buona decisione per accelerare le decisioni giudiziarie.

Quanto può essere profonda e quanto può durare la crisi che abbiamo davanti?
Ci sono vari numeri. Le stime danno la caduta per l’Italia nel 2020 più profonda degli altri paesi europei. Il punto è fare in modo che quando ci sarà il rimbalzo, e qualcuno inizia a vedere i segni di un arresto della caduta, questo possa essere il più potente possibile. Ecco perché è importante che si faccia l’uso migliore possibile delle risorse, sia quelle provenienti dal bilancio pubblico italiano sia quelle provenienti dagli strumenti europei. Bisogna usare tutte le risorse disponibili per accelerare la ripresa e per fare in modo che questa sia la più stabile e duratura possibile.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.