Apocalittici ed integrati, diceva Eco, a proposito della cultura di massa, contrapponendo quelli che avevano una visione aristocratica ma retrò della questione a quelli che ne avevano una popolare ma a volte semplificata. Lui si ritagliò una posizione diversa, in qualche modo mediana, anche se, poi, riconobbe che in qualità di strumenti della cultura pop «i social hanno dato voce a legioni di imbecilli». Affermazione particolarmente vera di questi tempi, in tutti i campi.

La cosa m’è tornata in mente a proposito del dibattito/non dibattito sui rischi che l’attuale situazione sta determinando rispetto alle libertà ed ai diritti civili, in tempo di Coronavirus. Di fronte alle poche voci che ammoniscono a verificare l’impatto di alcune decisioni sulla tenuta democratica complessiva, schiere di fiduciosi nelle magnifiche e progressive sorti del controllo tecnologico dei cittadini, o semplicemente della tecnologia, invocano ad ogni piè sospinto lo stato di necessità sanitaria. Tutti uniti dietro allo slogan “intercettateci, seguitici, controllateci tutti ed informatizzate pure i confessionali” così sconfiggiamo il Corona (o le mafie, o la corruzione ma questo è un altro discorso…).

Per ragioni, diciamo così, di competenza, io guardo la cosa soprattutto rispetto alle sorti del Giusto Processo. Anche nel mondo giudiziario, infatti, si registra la stessa dicotomia, e per una volta questa non combacia, perlomeno non del tutto, con le distinzioni di categoria. Soprattutto tra i secondi, infatti, non è raro trovare, oltre che la quasi totalità dei magistrati, anche numerosi avvocati, soprattutto tra quelli più colpiti, per ragioni personali o geografiche, dall’epidemia. Qui la parola d’ordine è: «finché il rischio non sarà azzerato in aula non ci si torna».

L’esigenza di tutela della vita umana – dicono – prevale già sulla libertà di circolazione, sulla libertà di riunione, sulla privacy, perché non sul processo? Pertanto, senza trincerarci dietro a steccati ideologici, si conceda alla macchina della giustizia di riprendere facendo da remoto – in maniera smart, sostengono con deliziosa anglofonia – tutto quel che si può fare: convalide degli arresti, udienze, persino le camere di consiglio e i processi in Corte di Assise. Se la medicina è amara sul versante dei principi, è anche l’unica che permette a quelli che non hanno lo stipendio, cioè proprio gli avvocati, di avere una qualche prospettiva, altrimenti, concludono beffardi, «mangiatevi i principi e morite di fame». Argomento un po’ rude ma dotato di una sua forza persuasiva, va riconosciuto.

La categoria, è praticamente egemone tra i magistrati e, soprattutto, tra i capi degli uffici giudiziari, i quali, visto che il dicastero non brilla, né per lo spirito né per il gusto, per dirla con Faber, molte di queste cose se le sono già decise da soli, e senza neppure una legge a disciplinarle. Poi, come succede da decenni, hanno spedito il compitino alla Politica e quella l’ha copiato. Ora, che rispondono gli avversari – categoria alla quale appartengo – che sono molti di meno persino tra gli avvocati? Beh, intanto, mettono sul piatto una figura retorica che rischia avere la stessa fortuna della casalinga di Voghera di Arbasiniana memoria: la cassiera di supermaket. Se a costei chiediamo di essere sufficientemente coraggiosa da incontrare, a meno di un metro, qualche centinaio di persone al giorno, perché lo stesso coraggio non lo pretendiamo dal mitico operatore di giustizia? Orribile neologismo che comprende avvocati e magistrati.

Domanda a cui non è possibile rispondere «perché mangiare è necessario» giacché questo argomento, cioè che è necessaria anche la Giustizia, sta alla base anche della posizione avversa. Se la Giustizia è necessaria, tanto da essere disposti a farla camminare coi cannocchiali telematici, lo è come gli altri rami necessari, come la produzione di certi beni, come gli apparati di sicurezza. Ma perché la Giustizia, dopo essersi fermata, ragionevolmente, allo scoppio dell’epidemia, una volta rimessa in moto dovrebbe camminare in maniera sghemba? Ascoltare un agente di pg in tv si potrà anche fare, tanto che già si fa ordinariamente, con i pentiti, ma non è la stessa cosa che farlo dal vivo, come non è la stessa cosa fare un esame ad un perito dal vivo o per via elettronica, né un arringa.

Anche qui è facile ribattere dicendo che anche le filiere industriali modificheranno le linee produttive; è vero, ma non in maniera tale da alterare il prodotto: sarebbe inutile perché non lo venderebbero. Viceversa la modifica di alcuni tratti strutturali del processo, si pensi solo alla possibilità di alterazione del meccanismo decisionale nella ipotesi di giudici che stanno a qualche centinaio di chilometri di distanza l’uno dall’altro, mette a rischio la qualità del prodotto/sentenza. Con le camere di consiglio telematiche cosa garantirà la segretezza, per non parlare della collegialità vera? Cosa garantirà l’assenza di meccanismi che possano influire sulla libera determinazione del singolo giudice?

Non è necessario arrivare al paradosso del giudice che decide con il parente dell’imputato – o il collega del poliziotto che ha fatto le indagini – in salotto, basta immaginare che la detenzione della documentazione processuale resterà saldamente nelle mani di uno dei giudici, non potendo ipotizzarsi il contrario, per verificare come quel meccanismo porti diritto ad una asimmetria che la tecnologia non potrà mai eliminare. Perché, poi, la medicina più somministrata è quella di estromettere gli avvocati ampliando a dismisura le camere di consiglio non partecipate? Perché, soprattutto, si inserisce una norma, che non esito a definire ricattatoria, per la quale se un avvocato, rischiando prima di tutto la sua di pelle, ritiene necessario presentarsi a fare una discussione, magari in Cassazione, quando è in ballo la custodia cautelare, si prevede che l’eventuale slittamento del processo che l’apparato non riesce a celebrare lo pagherà l’imputato in termini di prolungamento dei termini di custodia cautelare? Qui la risposta è facile: perché è un deterrente rispetto a richieste simili.

Il fatto è che, anche se nessuno è disposto ad ammetterlo, molte di queste soluzioni erano invocate anche prima del Corona, che dunque è diventato non solo il cavallo di Troia per farle passare, ma anche una anticipazione sperimentale di una, orribile, giustizia futura. Il che è dimostrato dal fatto che tutti si concentrano sulle udienze, che ben gestite sarebbero i momenti meno pericolosi attraverso fasce orarie, limitazioni temporanee alla partecipazione del pubblico – già previste ordinariamente per motivi di sanità – e distanziamento.

In realtà, come per le altre amministrazioni i problemi riguardano la frequentazione degli uffici e delle cancellerie, quella sì, al là del Corona, da semplificare in maniera smart, ma guarda caso ancora non hanno previsto il deposito di atti di impugnazione via pec. Viceversa ci sarebbero altre soluzioni e anche altri settori, prima di tutto il carcere, su cui quali esercitare le virtù degli amanti della sanità giudiziaria. Elenchiamole, non necessariamente in ordine di praticabilità politica, chiarendo che qui nessuno vuole fare il Rodomonte sulla pelle degli altri: i processi vanno fatti in sicurezza e lo Stato deve garantirne le condizioni, come in fabbrica, come negli uffici e nei campi, né di più né di meno.

In primo luogo ci vuole un’amnistia, strumento eccezionale che si adotta di fronte a situazioni eccezionali, che libera poco le carceri ma molto i tribunali. Ciò darebbe la possibilità di fare quel che rimane con le forme di ieri e gli accorgimenti di domani per rendere difficile la trasmissione del contagio. Quindi una norma semplice, che renda realmente eccezionale la custodia cautelare in carcere in tempi come questi, impedendo che venga applicata nei casi in cui è escluso l’arresto obbligatorio in flagranza e comunque quando non sussistono esigenze di eccezionale rilevanza. Ancora, abrogazione delle norme che hanno disincentivato il giudizio abbreviato, strumento più gestibile rispetto al dibattimento che alleggerirebbe le Corti di Assise.

Inoltre, possibilità di rendere eventuale, e a richiesta, ma senza prezzi da pagare, tutte le udienze partecipate, in camera di consiglio e non, in Cassazione, con dichiarazione da effettuare al momento del deposito del ricorso. Poi un indulto, che porta alla liberazione di spazi in carcere. Senza dimenticare la riesumazione dagli armadi della riforma del’Ordinamento penitenziario elaborata dalla Commissione Giostra, assieme alla possibilità di scontare le pene brevi ai domiciliari, ma non con la presa in giro dei braccialetti elettronici, e ad una liberazione anticipata rafforzata sul modello sperimentato anni fa dopo la sentenza Torreggiani della CEDU.

Infine, eliminazione per quest’anno del periodo di sospensione feriale continuando l’attività giudiziaria in agosto, cosa banalissima che nessuno vuole per motivi assai poco nobili, diciamocelo. Non è un libro dei sogni, sono cose che si possono fare e sono meno complicate di quelle in discussione che saranno approvate la prossima settimana, che liquideranno Oralità & Immediatezza, cioè parenti poveri del processo accusatorio italiano.

Certamente non è un programma da Bonafede, che è il ventriloquo delle peggiori idee che circolano sulla giustizia in magistratura, ma il PD perché non prende in considerazione questi temi su cui potrebbe portare anche i garantisti non pelosi dell’opposizione? Forse perché si basano su di un ingrediente, il coraggio, quello politico e quello tout court, che non si trasmette via internet.