Non siamo in guerra, letteralmente. Oggi però usare metafore belliche può servire: «Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore», diceva Aristotele nella Retorica. La capacità delle metafore di descrivere realtà sfuggenti ci aiuta a comprendere fenomeni inediti. Sono usciti tre articoli in pochi giorni che invece mettono in guardia dall’uso di metafore belliche: Paolo Giordano sul Corriere della Sera, Daniele Cassandro su Internazionale, e Gianluca Briguglia su Il Post.

Paolo Giordano scrive: «Non siamo in guerra. Siamo nel mezzo di un’emergenza sanitaria e presto anche economico-sociale, drammatica al pari di una guerra ma sostanzialmente diversa e che merita di essere considerata nella sua specificità». Per Paolo Giordano «parlare di guerra è una scorciatoia lessicale, un modo in più per eludere la novità assoluta, almeno per noi, di quanto sta accadendo, riconducendola a qualcosa che ci sembra di conoscere meglio».
La metafora però, come scriveva Umberto Eco, «ci interessa come strumento di conoscenza». Proprio perché viviamo una novità assoluta abbiamo bisogno di chiavi interpretative. Si parte da ciò che si conosce per arrivare a ciò di cui non abbiamo esperienza. Qualcuno sa come si vive in una emergenza sanitaria planetaria?

Nei diari di viaggio dei primi esploratori il tasso di metafore aumentava quanto più si avvicinavano a territori sconosciuti, non avendo parole per descrivere ciò che vedevano, decifravano il mondo grazie alle metafore. Nella storia della scienza, l’uso delle metafore è stato spesso illuminante. Quando il fisico Niels Bohr concepì il modello dell’atomo come un sistema solare (decretò questa analogia), lo fece non solo perché aveva bisogno di visualizzare l’atomo, ma perché quel modello gli consentì di progredire nella conoscenza. La metafora lo instradò a capire ciò che prima risultava inafferrabile.  La metafora non è mai una scorciatoia lessicale, è un trampolino per pensare l’impensabile.

Daniele Cassandro si lamenta che «l’unica risposta che conosciamo a una potenza nemica che ci attacca è la guerra, con tutte le metafore che si porta dietro». L’articolo si appoggia sul saggio di Susan Sontag Malattia come metafora del 1978 e su quello aggiuntivo L’aids e le sue metafore del 1989). Ma la metafora della guerra, nel caso della pandemia, più che colpevolizzare il malato, fa luce sui fenomeni latenti analoghi alla guerra: dagli ingressi contingentati al supermercato alle restrizioni della libertà, dalle ronde della polizia al bollettino dei morti. C’è l’esercito per strada e le Olimpiadi sono rimandate. Questo scenario assomiglia più alla diffusione delle malattie descritte da Susan Sontag o alla guerra? Le Olimpiadi sono saltate solo durante le guerre mondiali. Rifiutare in toto la metafora della guerra è un’astrazione, è negare un dato di fatto.

Come ricorda Paul Ricoeur, nel celebre classico La metafora viva, la metafora ha un valore istruttivo: «Questa virtù riguarda, in effetti, il piacere di apprendere, piacere che nasce dall’effetto sorpresa». Dire «la pandemia di Coronavirus è una guerra» non vuol dire cancellare l’aspetto sanitario della pandemia (nella metafora, il primo termine rimane sempre, convive con il secondo, come in quella canonica “Achille è un leone” in cui Achille viene descritto come forte e coraggioso pur restando Achille).

Gianluca Briguglia su Il Post scrive: «La metafora della guerra questa volta non funziona perché ci deresponsabilizza» e «in questo caso specifico forse quella che va detta è proprio la letteralità del fenomeno, se dire epidemia ci pare poco. Si tratta cioè di una catastrofe sanitaria mondiale». Sì, ma – di nuovo – come ci si comporta in una catastrofe sanitaria mondiale? Abbiamo bisogno di un modello.

Ci si potrebbe chiedere se usare subito la metafora della guerra non ci avrebbe permesso di guadagnare tempo, di non farci guardare come un fenomeno esotico l’ospedale di Wuhan costruito in dieci giorni. La metafora della guerra, domani, ci potrà aiutare a pensare al dopoguerra – come evocato da Mattarella –, e a farci visualizzare ciò che ora è inimmaginabile: la possibilità di una rinascita e magari di un nuovo boom economico.