La coalizione occasionale – tra Fedez e Alessandro Zan – ha scippato la Festa del Lavoro ai sindacati. Il rapper tatuato (come il fiocinatore di balene nel romanzo Moby Dick di Herman Melville), con il suo discorsetto, scorretto sia nel metodo che nel merito, è diventato l’eroe del 1° Maggio 2021, pubblicamente ringraziato da Enrico Letta e Giuseppe Conte (tralasciamo un debordante Michele Santoro a Non è l’Arena) e osannato dai social come campione del “dirittismo”.

Il senatore Zan ha vissuto il suo giorno da leone assistendo all’esaltazione acritica del suo discutibile disegno di legge contro la misoginia, l’omotransfobia e l’abilismo, addirittura nel sancta sanctorum del Concertone in Piazza del Popolo, l’unico evento che contraddistingue ancora la Festa del Lavoro da quella del Santo Patrono. In compenso a Cgil, Cisl e Uil è ancora riconosciuto il diritto all’esclusiva in materia di pensioni. Almeno così sembra agli osservatori, poiché dal 17 febbraio – il giorno della rinascita del Paese nel nome di Mario Draghi – sono rimasti solo i sindacati a pronunciare quella parola che “infiniti addusse lutti” a molti governi prima dell’attuale. Nelle Comunicazioni sulla fiducia al Senato, nel nostro giorno dei Santi Crispino e Crispiniano, il presidente Draghi non pronunciò neppure una volta la parola pensioni sulle 5.622 da cui era composto il discorso.

Ci eravamo messi in attesa del Pnrr ed accontentati di una frasetta laconica che ripeteva ciò che era stato detto tante volte in tutte le sedi perché così disponeva la legge: quota 100 sarebbe venuta a scadenza a fine anno senza alcuna proroga mentre si sarebbero trovate soluzioni per i lavori disagiati. Erano quelle le parole che a Bruxelles volevano leggere, perché, una volta venuta a mancare la deroga di carattere sperimentale, sarebbe tornata operativa, anche se un po’ ammaccata, la disciplina prevista dalla riforma Fornero. Ma perché dare questa soddisfazione alla Commissione? Così la frase è stata espunta. In un’intervista al Foglio, Claudio Durigon ha persino sostenuto che quel brano sibillino era un refuso del testo del governo Conte. Così, nel silenzio omertoso del governo (interrotto dal protagonismo – si veda l’intervista a La Stampa – di Pasquale Tridico, presidente evergreen dell’Inps), i sindacati scorrazzano in lungo e in largo agitando la loro proposta come una clava. Per i soggetti a cui si applica il regime misto sono previste due uscite: 62 anni con almeno 20 anni di contribuzione oppure 41 anni di versamenti a qualunque età.

Per coloro che sono interamente nel sistema contributivo sopravvivono – a quanto pare – alcuni dei requisiti anagrafici e contributivi previsti dal riordino del 2011, ma spariscono le condizioni che garantivano una ragionevole adeguatezza delle prestazioni. Poi continua lo sbandieramento della pensione di garanzia per i giovani, i quali non si vedono assicurare una vita di lavoro, ma un sussidio per quando saranno vecchi. E la sostenibilità? «Un traguardo assolutamente sostenibile sotto il profilo finanziario», assicurano i dirigenti sindacali. Certo, non portano alcuna argomentazione, ma sono pur sempre persone d’onore.

A questo punto suggeriremmo a Mario Draghi di appartarsi riservatamente con i vertici confederali e rivolgere loro paternamente questa raccomandazione: “Ragazzi, non scherziamo. Io vi capisco: Nunzia Catalfo vi aveva promesso la luna; ma le vostre proposte sono fuori mercato. Pensate che io possa presentarmi a Bruxelles (dove sono ancora critici per quota 100 e dintorni e chiedono la fine delle sciagurate sperimentazioni giallo-verdi e tornare sui binari della riforma Fornero) con una controriforma che peggiora le cose; che supera, ma all’indietro, la disciplina introdotta nel 2011 buttando, così, nel cestino almeno venti anni di faticose riforme?”. Invece, il premier – la stessa persona che nel 2011 impose, insieme a Trichet, al governo di allora, nella lettera del 5 agosto, di «intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità» – oggi temporeggia davanti a proposte sindacali che fanno di quelle regole (rese ancora più vantaggiose) il perno del sistema pensionistico in un Paese, unico in Europa, in cui il numero dei trattamenti anticipati è superiore a quelli riconosciuti a titolo di vecchiaia. Draghi conosce la situazione e non si farà certo incantare della leggenda metropolitana dello “scalone”.

Alla scadenza di quota 100 le cose si sistemerebbero da sole con equilibrio ed equità. Vi sarebbero – lo ricordiamo – due tipi di pensionamento per chi è nel sistema misto: la vecchiaia a 67 anni con almeno 20 di versamenti; la vecchiaia anticipata/anzianità con 42 anni e 10 mesi per gli uomini ed un anno in meno per le donne a prescindere dall’età senza modifiche fino a tutto il 2026. Lo spazio intermedio tra queste due opzioni – ora malamente coperto da quota 100 – potrebbe benissimo essere tutelato dall’Ape sociale (anche i sindacati lo sanno e ne chiedono il rafforzamento strutturale), senza dover spacchettare in due rate la pensione come propone Tridico. I beneficiari di questa prestazione appartengono a una platea molto ampia di persone che hanno effettivamente dei problemi di lavoro, personali e famigliari. All’Ape sociale – a carico dello Stato – si accede nei casi previsti (lavori disagiati, caregivers, disoccupati, ecc.) facendo valere 63 anni di età e 30 o 36 di versamenti, a seconda delle condizioni protette. L’altro aspetto singolare è che i sindacati non si pongono alcun problema di fronte a una spesa pensionistica che nel 2020 ha superato – per tanti motivi, tra cui il crollo del Pil – il 17% del prodotto.

Per non parlare della assoluta mancanza di riflessione dal punto di vista demografico per quanto riguarda gli effetti combinati dell’invecchiamento e della denatalità. Non si rendono conto che, già adesso e nei prossimi anni, le coorti che subentrano alle precedenti sono in numero fortemente ridotto, fino al punto in cui i demografi avvertono che, senza l’accoglienza e l’integrazione di un maggior numero di stranieri negli anni prossimi, non sarebbe garantito il ricambio tra chi esce e chi entra nel mercato del lavoro. I sistemi pensionistici a ripartizione hanno la memoria lunga; è sbagliato adottare provvedimenti che risolvano – male – un problema nell’immediato (come se la pensione fosse un ammortizzatore sociale), pregiudicando la sostenibilità nei prossimi decenni.

È necessario avere un minimo di visione d’insieme. Un giorno scoppia il caso del crollo della natalità (un fenomeno strutturale che non si risolve in breve e solo con interventi di natura economica); il giorno dopo si scopre che nei prossimi dieci anni verrà a mancare (perché non sono nati) 1,4 milioni di studenti. Come si fa a non capire che questi fenomeni sono collegati e che, pertanto, l’esigenza di lavorare più a lungo non riguarda solo gli equilibri di finanza pubblica, ma anche quelli del mercato del lavoro? Negli incontri a Palazzo Chigi i leader sindacali hanno lamentato di non avere un ruolo adeguato nella gestione del Pnrr. Ma hanno un “pensiero” da esprimere e delle proposte che non siano riferite solamente alla proroga del blocco dei licenziamenti e della cig da Covid-19 e all’anticipo del pensionamento? Non ce ne siamo accorti.