L’esortazione che viene dal mondo delle imprese, a pochi giorni dalla presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è stata rappresentata con grande efficacia da Carlo Bonomi. Il presidente di Confindustria, incontrando il premier Mario Draghi, assieme alla necessità di urgenti misure emergenziali a sostegno delle aziende italiane, ha lanciato un appello: inquadrare le politiche industriali del nostro Paese in una «visione generale per la ripresa italiana» e un «sistematico coinvolgimento delle parti sociali», se si vuole ottenere il risultato di «una crescita solida e senza azzardi».

Circostanza che induce a una prima riflessione. Il nostro Paese presenta, infatti, numerose anomalie e disallineamenti che si fanno risultare spesso ambigui o enigmatici agli occhi dei nostri partner in Europa e nel mondo. Ma fra le altre ce n’è una veramente difficile da spiegare: la necessità di invocare periodicamente centralità e ruolo delle imprese come leva ineludibile dello sviluppo economico. Se si potesse svolgere un concerto senza violini o senza archi, una partita di calcio senza mediani, uno spettacolo teatrale senza sceneggiatori, allora sì che si potrebbe tenere le imprese – le forze produttive – ai margini del campo decisionale del Recovery Fund. È paradossale che il sistema delle imprese sia obbligato ad alzare la mano (e la voce) quando sul tappeto ci sono scelte cruciali per fare in modo che la massa di debito che andremo a contrarre per beneficiare del Next Generation Eu non sia di ulteriore deficit da scaricare, come una croce, sulle spalle dei nostri figli. Ma c’è una anomalia nella anomalia e si chiama Sud. Si chiama divario interno e fa della nostra economia una “anatra zoppa”. Altro enigma per chi ci guarda da oltre confine: come può un Paese con l’area più vasta del Continente in condizioni di sviluppo inferiore alla media europea, ripetere il miracolo che lo ha distinto nel dopoguerra?

Da una parte, quindi, c’è l’impresa ignorata dai partiti; dall’altra c’è un terzo del territorio nazionale che non dispiega ancora le sue risorse ed energie a pieno regime: uno dei fattori principali che frenano l’Italia impegnata in sfide competitive inedite, quelle che il mondo globalizzato impone. Tutti gli indicatori segnalano che il divario fra il Nord e il Sud è aumentato negli ultimi dodici mesi per effetto della pandemia che ha messo fuori gioco tante attività. Se il primo punto è formulare una politica industriale tenendo conto di chi fornisce il contributo di pil necessario a tenere in corsa il Paese, il secondo è l’integrazione industriale tra i territori rompendo la falsa alternativa tra il Nord legato alla locomotiva centroeuropea e il Mezzogiorno vincolato alla deriva in un Mediterraneo le cui potenzialità di sviluppo vengono considerate un potenziale inesprimibile a causa di numerose criticità geopolitiche che ne fanno un’area ad alta instabilità.

Una grande economia integrata con al centro una forte industria manifatturiera e un commercio estero dinamico è una scelta obbligata. E per riaccendere i motori della locomotiva Nord, è indispensabile che in tutti i vagoni del convoglio (incluse le regioni meridionali) vengano innescati i driver fondamentali dello sviluppo, a partire dalle enclave di innovazione trasformazionale, ad alto contenuto tecnologico e di conoscenza, che sono le filiere produttive del futuro: centri di ricerca, università, imprese. Sistemi presenti in maniera significativa nel Mezzogiorno, attorno ai quali può crescere il tessuto connettivo dello sviluppo con più logistica e infrastrutture, più riqualificazione urbana, più efficienza energetica che il Recovery Fund può assicurare al territorio. Serve più industria per salvare il Sud? No, io dico che serve più industria per salvare l’Italia e, soprattutto, fare dell’Europa un big player tra le superpotenze del mondo.

Il Mezzogiorno viene spesso accostato alla Grecia o, peggio, all’Africa per la debolezza della sua economia e per le storture che la rallentano. Non è terzo mondo ma un’area che ha i numeri per contare nell’economia continentale, con un valore aggiunto manifatturiero (28,8 miliardi di euro nel 2010) superiore a quello prodotto dalla manifattura di nazioni europee come la Finlandia, la Romania, la Danimarca. Con regioni come Campania e Puglia con un valore aggiunto manifatturiero maggiore rispetto a nazioni dell’Europa a 27 come Croazia e Slovenia.

Con aree industriali come quella casertana, la più estesa del Mezzogiorno e la quarta d’Italia con oltre 24 mila imprese delle costruzioni e manifatturiere e punte di specializzazione ed eccellenza nei settori della meccanica, metallurgia, energia, agroalimentare, aerospazio, fashion. Senza una visione di quale sarà la specializzazione produttiva che restituirà all’Italia il ruolo di potenza economica, non saremo in partita. Oserei dire che non toccheremo palla. Perché le politiche industriali arrivano al nerbo dell’economia e orientano le rotte strategiche del Paese. Cosa produrre, come produrlo e dove gestire la produzione: ecco le domande chiave per alimentare le catene del valore che sono il cuore del possibile rilancio dell’economia italiana.