L’analisi del professore di diritto penale
Referendum giustizia, Maiello: “L’Anm ha cessato di ragionare con le categorie del diritto e ha deciso di vestire i panni del soggetto politico ma i ‘palazzi’ non sono casa loro”
«Il diavolo è il mantenimento dello status quo a tutti i costi. L’anima è l’immagine di imparzialità». Comincia con suggestioni goethiane, la conversazione con Vincenzo Maiello, professore di diritto penale nell’Università di Napoli Federico II e avvocato di eleganza pugnace.
Che effetto ti ha fatto vedere l’aula delle sezioni unite usata per lo svolgimento di un’iniziativa politica? In questo caso, il NO alla riforma Nordio propugnato da ANM. Secondo me, da quel luogo andrebbe esclusa ogni attività politica, a prescindere da chi la promuova.
Credo che per la prima volta un’aula della Cassazione – anzi, la sua più rappresentativa ove la Corte pronuncia le parole della legge in nome del popolo sovrano e con le “risorse” del Diritto – abbia ospitato una manifestazione che nulla ha a che vedere con i suoi compiti. E anche quando in precedenza si sono tenuti eventi culturali a latere dell’esercizio giurisdizionale, la sacralità laica del contesto è sempre restata salva. Sabato scorso abbiamo assistito ad altro: l’aula delle sezioni unite è stata prestata ad ANM per una manifestazione che ha sublimato il suo ruolo di soggetto politico. Costituendo i comitati per il NO, ANM ha scelto di essere protagonista di una contesa politico/referendaria, in quanto tale indirizzata ad ottenere il consenso degli elettori. In questo, colgo un dato eccentrico.
C’è un precedente, proprio nella tua città, perché il sabato prima si era fatto qualcosa del genere anche nel palazzo di giustizia partenopeo.
Nell’occasione, la magistratura associata aveva organizzato un evento, imprimendovi un’accentuata connotazione sociale. Vi aveva allestito un dialogo con giornalisti, studenti, sindacalisti e artisti su temi di forte impatto pubblico, quale pace, questioni di genere e giustizia. Guarda caso, i grandi assenti sono stati i soggetti coi quali professionalmente i magistrati discorrono di diritto, vale a dire avvocati e docenti universitari. Del resto, il rappresentante distrettuale di ANM aveva esordito esclamando più volte “qui siamo a casa nostra!”.
Soffermiamoci su questa frase, perché sappiamo che iniziative simili le vedremo in ogni sede di Corte d’Appello.
L’affermazione secondo cui i palazzi di giustizia sono “casa della magistratura” lascia perplessi. Intanto, quei palazzi non sono case, non abitandovi persone. Sono edifici pubblici, che appartengono allo Stato. Ipotizzare su di essi un diritto reale, ancorché metaforico, evoca una dimensione autoritaria e dominicale della giustizia, niente affatto in linea con la matrice democratica della giurisdizione e con la sua caratterizzazione discorsiva e polifonica. Volendo impiegare la metafora della casa, la riferirei, piuttosto, non ai palazzi di giustizia, ma all’attività che in quei luoghi si svolge; dicendo che essa appartiene alla civiltà del diritto e ai suoi contrassegni identitari: il giusto processo e i princìpi che lo integrano, la presunzione di innocenza, la legalità in tema di reati e pene. Sono queste, allora, le entità che abitano la giurisdizione intesa come casa, con la conseguenza che nessun soggetto, fisico o istituzionale, può vantarvi diritti di signoria, da cui possa discendere la pretesa facoltà excludendi alios.
Di queste manifestazioni, stupisce anche la tipologia di argomentazioni che vengono ostentate, proprio come se si trattasse di conseguire un consenso politico.
Nel contesto della campagna referendaria, la magistratura viene osservata anche per la qualità dell’argomentazione che mette in campo. Da essa ci si aspetta rigore e conseguenzialità di ragionamento: aderenza ai fatti e correttezza di metodo nell’interpretare le norme. Il contrario di ciò che sta accadendo. La riforma non viene valutata per quel che vi è scritto, ma per quel che da essa un giorno potrà scaturire; in questo modo, la dietrologia distopica diviene un criterio ermeneutico. Chiediamoci se questo approccio giovi alla credibilità sociale di quella che rappresenta la più diffusa istituzione di garanzia dello Stato di diritto. Insomma, davvero la magistratura può consentirsi di giudicare una riforma per quel che non dice e omettere di farlo per quel che vi è scritto?
Tra cui spicca proprio il rafforzamento dello statuto del PM. Si finge di ignorare che, ad oggi, le garanzie del PM sono quelle previste dalla legge di ordinamento giudiziario, non dalla Costituzione. Questa riforma, col nuovo comma 1 dell’art. 104 della Carta, parifica la tutela costituzionale di magistratura giudicante e requirente.
La magistratura manca di considerare che le ragioni della riforma non possono essere rapportate all’architettura costituzionale delle origini, ma vanno collegate alla ridefinizione del processo che trae origine dal nuovo testo dell’art. 111, approvato quasi all’unanimità nel 1999. Impostando così il discorso, non vi è alcuno spazio di agibilità per il no alla riforma.
Ritorno sulle sbandierate ragioni per il NO. Concordi che non sia un problema di linguaggio, bensì di suo contenuto? È inevitabile che in una campagna referendaria, per esser compresi dal profano, si debba semplificare il messaggio, ma farlo non equivale a trasfigurare il contenuto effettivo della riforma.
Anche accettando il coinvolgimento della magistratura nella contesa referendaria, è forte l’aspettativa che essa veicoli messaggi espressivi di una corretta lettura delle norme. In ogni caso, temo che la sua discesa in campo comprometterà la credibilità pubblica della sua imparzialità, con un danno disastroso per lo Stato di diritto. Solo un provvidenziale intervento del Capo dello Stato, anche quale Presidente del CSM, potrebbe impedire una perdita di legittimazione, che – mutatis mutandis – somiglierebbe alla vendita dell’anima di Faust.
Mi ha colpito molto, del “sabato in Cassazione”, la presenza di Ranucci e la standing ovation che ha ricevuto. È come se si fosse manifestato plauso per un certo metodo di ricostruire i fatti relativi a vicende giudiziarie. Cito Ranucci, ma poteva essere Giletti o qualche altro loro collega che in televisione fa, soi-disant, giornalismo d’inchiesta. Non pensi che quell’applauso, oltre a solidarietà per il grave attentato, esprimesse condivisione per un metodo che rischia di essere applicato anche alle regole di giudizio o di esercizio dell’azione penale?
Quello che tu hai notato è la conferma che in questa vicenda l’ANM ha cessato di ragionare con le categorie del diritto e ha deciso di vestire i panni del soggetto politico interessato al consenso a tutti i costi.
Il giornalista insegue legittimamente – almeno entro certi limiti – anche l’obiettivo di conseguire la maggiore audience possibile per la sua trasmissione. Il magistrato non dovrebbe preoccuparsi di audience, ma di essere soggetto soltanto alla legge.
E, come dice Ferrajoli, di maturare salda convinzione in un metodo che, in nome del fallibilismo epistemico e della relatività del giudizio, predica il dubbio come dialettica della decisione. Insomma, è la figura di giudice che assolve quando le tricoteuses reclamano la condanna e condanna tutte le volte nelle quali la piazza dei tifosi inneggia all’assoluzione.
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