Oggi il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge costituzionale che riforma, in particolare ma non solo, l’ordinamento giudiziario. Il referendum confermativo, che non prevede un quorum di votanti, si terrà quasi sicuramente nella primavera del 2026 (il centrodestra ha annunciato che intende promuoverlo per primo nel giro di pochi giorni, anche se non tutti sembrano d’accordo). La parola passerà tra cinque-sei mesi, quindi, agli elettori.

I contrari, Anm in testa, cercheranno di dimostrare che la riforma mina l’autonomia della magistratura sottoponendola al controllo del governo. Ma qui non è difficile smentirli. Basta leggere il nuovo testo dell‘articolo 104: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Così come non è difficile sostenere che si tratta della logica conseguenza del principio enunciato nell’articolo 111 della Costituzione (riformulato già nel 1999): “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Va aggiunto, ovviamente, un argomento dirimente, ovvero che nei Paesi europei in cui vige la separazione delle carriere non pare che si sia spento Lo spirito delle leggi di Montesquieu.

Il rischio è un altro, e riguarda sia i contrari che i favorevoli. È quello di trasformare un referendum su una “giustizia più giusta”, su un più alto livello di civiltà giuridica, in uno scontro sull’inquilina di Palazzo Chigi o su chi vi ha abitato nel passato. Personalizzare la prova referendaria, o intitolarla alla memoria o vendetta postuma di Silvio Berlusconi, sarebbe un grave errore politico. E l’esperienza del 2016 (“referendum Renzi”) dovrebbe suggerire una strada diversa. La strada della spiegazione ai cittadini, con parole semplici ed esempi concreti, dei benefici che possono trarre da una vittoria del sì. Benefici sociali, economici e umani.

Ne era ben consapevole Giovanni Falcone che, in un’intervista rilasciata a Mario Pirani poco prima del suo omicidio (3 ottobre 1991, La Repubblica), illustrava con chiarezza cristallina le ragioni della riforma: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte”.