Come spesso accade, la reale portata politica dei referendum sulla giustizia si riesce a cogliere attraverso le parole degli oppositori. I primi a reagire negativamente sono stati il Partito Democratico ed il Movimento Cinque Stelle. Enrico Letta ha qualificato l’adesione della Lega di Salvini all’iniziativa referendaria come una deprecabile attività di “lotta politica”. A sua volta, il Movimento Cinque Stelle, per bocca tra l’altro di Gianfranco Di Sarno, seppure con l’imbarazzo determinato dal fatto di contrastare uno strumento di democrazia diretta quale è il referendum, si è rifugiato nell’incredibile considerazione che si tratta di argomenti troppo tecnici per dare la parola ai cittadini. Ed il principio dell’uno vale uno? Da ultimo, l’Associazione Nazionale Magistrati, per bocca del suo Presidente, ha sollecitato da parte della magistratura associata, una “ferma reazione” contro il referendum.

Di fronte ad una reazione così articolata e così decisa contro il referendum, non può non tornare alla mente quello che accadde nel 1991, quando Craxi invitò ad andare al mare, mostrando disprezzo per il referendum che era stato promosso da Mario Segni. Tutti ricorderanno che l’affluenza fu del 65% e che il Sì vinse con il 95.57% dei voti validi. Quel referendum costituì, come è noto, lo strumento attraverso il quale i cittadini italiani manifestarono una istanza di cambiamento politico e sociale, che poi trovò ulteriore alimento nella vicenda di Mani Pulite. L’istituto del referendum abrogativo fu quindi, nella realtà, lo strumento attraverso cui la pubblica opinione riuscì a far sentire a un Palazzo, altrimenti insensibile, la propria richiesta di una politica rifondatrice. Il referendum segnò l’abolizione dei voti di preferenza, ma ebbe un significato politico molto più ampio in quanto creò le condizioni per una transizione a una nuova e diversa organizzazione dello Stato. E, difatti, a quel referendum si opposero le forze le quali si mettevano di traverso rispetto a qualsiasi istanza riformatrice, che chiedeva di combattere l’invasione dei Partiti e delle loro correnti su ogni aspetto della vita pubblica.

Anche oggi, i referendum proposti hanno un significato politico molto più ampio di quello espresso dagli specifici quesiti, in quanto sembrano volti ad interrompere la preminenza, che una santa alleanza tra giudici, alcuni Partiti ed alcuni mezzi di informazione, ha avuto sulla scena italiana negli ultimi 30 anni, ponendo al vertice del sistema democratico un circuito mediatico giudiziario che ha potuto impunemente compiere un numero incredibile di prevaricazioni. E, difatti, chi si oppone ai referendum, è proprio chi da quel circuito mediatico-giudiziario ha tratto giovamento. Estremamente espressiva, in questo senso, è proprio la posizione della Associazione Nazionale Magistrati, che invoca una ferma reazione dei propri aderenti contro referendum.

Il Partito Democratico, a sua volta, è da Tangentopoli che compensa la progressiva perdita di idee e di ruolo nella società italiana con un supporto incondizionato a quel circuito mediatico giudiziario, che tanto efficace si è dimostrato nell’abbattere gli avversari. Infine, non può non apparire grottesca la posizione del Movimento Cinque Stelle. Un Movimento, che ha fatto del valore della democrazia diretta uno dei propri princìpi fondanti, come può opporsi a quella che è la massima espressione di democrazia diretta contemplata dal nostro ordinamento costituzionale, quale è proprio lo strumento referendario? Ed ancora più grottesco è che, per opporsi allo strumento referendario, si usino le stesse parole d’ordine di quei politici che sono indicati, nella narrazione dei Cinque Stelle, come la massima espressione del male (Craxi ed alcuni esponenti Dc).

Ecco, allora, che si disvela il valore dei referendum sulla giustizia. Essi possono costituire, in questo momento storico, l’unica valvola di sfogo per un Paese, che ha visto il Palazzo chiudersi in sé stesso, e difendere le proprie prerogative anche a costo di comportamenti palesemente sconci. Si pensi al passaggio repentino, con lo stesso Presidente del Consiglio, da un Governo di destra (quale quello giallo-verde) ad un Governo di sinistra (quale quello giallo-rosso) o allo spettacolo indegno del tentativo di compravendita dei parlamentari pur di mantenere in piedi l’assetto di potere che ruotava intorno al secondo governo Conte. Né la giustificazione dello sconcio spettacolo sopra indicato, e cioè l’esistenza di un’emergenza, può certamente essere considerata idonea a legittimare il rifiuto dello strumento referendario e, soprattutto, di quello che esso significa: una possibilità data ai cittadini di esprimere la propria volontà di cambiamento.

Se si considera che questa situazione di emergenza è ormai divenuta una costante in questi ultimi dieci anni di governi, sostanzialmente privi di legittimazione popolare, non possono non tornare alla mente le parole di Niklas Luhmann: «Quando si è costretti a governare in condizioni di emergenza, si è già, almeno come politici, perduto». Dunque, il Palazzo, il quale osteggia i referendum per difendere sé stesso, ha già perso ed è proprio questo rifugiarsi nelle esigenze dell’emergenza, che sta ad indicare che la lotta ai referendum è solo un modo per nascondere la propria decomposizione.

I referendum, in definitiva, vogliono modificare una agenda politica che non è più, e da tempo, adeguata alle esigenze del Paese. Ecco perché contrapporre ad essi il valore dei compromessi, che possono essere raggiunti in Parlamento non ha nessun senso. Il tema in discussione non riguarda solo specifici punti dell’ordinamento, ma anche l’accettazione o no, da parte degli italiani, dell’agenda politica che il Palazzo ha dettato in questi ultimi anni.