Nell’agosto dello scorso anno il secondo governo Conte ha approvato un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario (disegno di legge Bonafede), ora all’esame della Camera dei deputati, contenente tra l’altro norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura. L’articolo 29 di questo disegno di legge, se approvato, modificherà il sistema elettorale vigente (legge n. 44 del 2002), che nelle intenzioni avrebbe dovuto porre un freno allo strapotere delle correnti: obiettivo evidentemente non raggiunto, poiché le nuove norme dovrebbero consentire di «scardinare il sistema che si è venuto a creare a causa delle cosiddette degenerazioni del correntismo», che hanno consentito la sistematica spartizione di cariche e posti di potere in base all’appartenenza dei magistrati alle diverse correnti.

È giusto chiedersi se la norma citata sia davvero idonea a raggiungere questo scopo o se lasci invece intatto il sistema di potere e le conseguenti disfunzioni, che si sono consolidati in questi ultimi decenni all’interno della magistratura, o se addirittura peggiori la situazione attuale, cristallizzandola e contrastando i significativi, ma ancora insufficienti, segnali di cambiamento che si stanno manifestando. Il disegno di legge all’esame della Camera prevede che le elezioni si svolgano in diciannove collegi. Uno, cui sono assegnati due seggi, è composto dai magistrati della Corte di Cassazione con funzioni di legittimità, della Procura Generale presso la stessa Corte e del Tribunale delle acque pubbliche. Ai rimanenti 18 collegi è assegnato un solo seggio.

Di questi ultimi uno è composto da una pluralità ete-rogenea di magistrati: quelli collocati fuori ruolo, quelli dell’ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione, della Corte d’appello di Roma e della Procura generale presso la stessa Corte, dei magistrati della Direzione nazionale antimafia. Gli altri diciassette sono composti dai magistrati di uno o più distretti di Corte d’appello, formati in modo che ciascun collegio comprenda un numero di elettori tendenzialmente pari a un diciassettesimo del corpo elettorale. In questo modo si rafforza il rapporto rappresentativo diretto tra il consigliere eletto e il proprio collegio e, almeno potenzialmente, la funzione rappresentativa del Csm nei confronti di tutti i magistrati.

All’interno di ogni collegio possono presentare la propria candidatura, sostenuta da un numero di magistrati non inferiore a dieci e non superiore a venti, i magistrati che godono dell’elettorato passivo. Gli elettori possono esprimere fino a quattro preferenze progressivamente numerate e ordinate sulla scheda, alternando candidati di genere diverso.
Il numero dei candidati non può essere inferiore a dieci. Se sono di meno si procede, nel rispetto della parità di genere, al sorteggio di altri magistrati, che si aggiungono ai primi, salva rinuncia, fino al raggiungimento del numero minimo previsto. È questa una procedura meramente formale e priva di rilievo. Chi è interessato a candidarsi può infatti farlo direttamente senza attendere un eventuale sorteggio; chi non si candida, ma è sorteggiato, è del tutto improbabile che accetti.

Per essere eletto il candidato deve ottenere il 65% dei voti validi espressi al primo posto sulla scheda: norma di prevedibile rara applicazione e di dubbia conformità alla costituzione. Maggioranze superiori a quella semplice (metà più uno dei votanti) sono certamente legittime, ma per la tutela di particolari valori o esigenze (per esempio per l’elezione del Presidente della Repubblica), la cui esistenza è difficile ipotizzare nei confronti del Csm. Altrettanto discutibile è l’impossibilità di proclamare eletto il candidato che, per esempio, abbia conseguito un numero dei voti validi espressi inferiore al 65%, ma superiore alla maggioranza assoluta dei componenti il collegio elettorale.
Se la maggioranza del 65% non viene raggiunta da nessun candidato, si aggiungono ai rispettivi voti anche quelli indicati al secondo, terzo e quarto posto sulla scheda, attribuendo ad essi un coefficiente di riduzione pari rispettivamente al 0,90, 0,80 e 0,70.

Logica vorrebbe, sostenuta da evidenti e non trascurabili ragioni di economicità e di semplicità, che si procedesse alla proclamazione del candidato che avesse ottenuto il maggior numero di voti. Invece questo conteggio serve soltanto a selezionare i candidati per il secondo turno di votazioni, al quale sono ammessi i quattro che abbiano ottenuto il maggior numero di voti rispetto agli altri. Il sistema elettorale a doppio turno è utilizzato negli ordinamenti politici statuali per conciliare in modo equilibrato due diverse esigenze: quella della rappresentatività del corpo elettorale e quella della governabilità. Al primo turno, al quale partecipano tutti i partiti, il seggio è assegnato al candidato che raggiunge un quorum relativamente elevato. Nei collegi il cui seggio non sia stato assegnato si procede a una seconda votazione, alla quale partecipano i candidati, normalmente solo due, che abbiano ottenuto il maggior numero di voti rispetto agli altri.

I partiti minori, quindi, ne sono esclusi, mentre gli altri al fine di conquistare il seggio debbono coalizzarsi, prefigurando una coalizione politica che, se maggioritaria a livello nazionale, sarà proiettata al governo.
Questo sistema non è adeguato al Csm, al quale è estranea l’esigenza di conciliare la rappresentatività con la governabilità. Al suo interno, infatti, non vi è né una “maggioranza di governo” né una “opposizione”. Le sue decisioni vengono assunte da maggioranze fluide, non precostituite, dipendenti di volta in volta dalla natura e dalle caratteristiche degli argomenti posti in votazione. Non a caso il disegno di legge Bonafede stabilisce che nel Csm “non possono essere costituiti gruppi”, che “ogni membro esercita le proprie funzioni in piena indipendenza e imparzialità” e infine che le commissioni interne, compresa quella disciplinare, sono costituite, nel rispetto del rapporto costituzionale tra i componenti togati e quelli di nomina parlamentare, mediante sorteggio.

A questa prima perplessità se ne aggiunge un’altra ancor più significativa. Il numero dei candidati ammessi al secondo turno (quattro) è palesemente eccessivo rispetto a quelli del primo turno. È vero che il disegno di legge stabilisce che non possano essere meno di dieci e che quelli eventualmente mancanti debbano essere estratti a sorte (salvo rinuncia). Ma questa procedura conferma in modo implicito che normalmente i candidati saranno soltanto cinque, corrispondenti alle cinque correnti interne dell’Associazione nazionale magistrati, di cui una, Articolo 101, appare non omogenea rispetto alle altre, perché contesta il prepotere delle correnti. Non si può non constatare allora che il numero dei candidati ammessi al secondo turno è pari a quello delle preferenze che ciascun elettore può esprimere nel primo turno. Questo meccanismo appare funzionale o comunque può essere utilizzato per estromettere dal secondo turno elettorale e di conseguenza dal Csm per il momento “Articolo 101” e in futuro eventuali nuove aggregazioni, consolidando e perpetuando proprio quel sistema di potere interno alla magistratura contro il quale si vorrebbe porre rimedio.

Nel secondo turno gli elettori hanno a disposizione due voti. Risulta eletto il candidato che abbia ottenuto il maggior numero di voti, applicando alle preferenze indicate al secondo posto sulla scheda un coefficiente di riduzione pari a 0,80. Con le stesse modalità sopra descritte si procede negli altri due collegi, con l’atipicità che in quello della Cassazione i due seggi non possono mai essere assegnati nel primo turno (nemmeno quindi con la unanimità dei voti!), che serve soltanto a selezionare i quattro candidati per il turno successivo. Occorre adesso domandarsi se questo sistema elettorale sia idoneo a porre un freno alla degenerazione delle correnti, come auspicato dall’ex ministro Bonafede. La risposta più probabile è quella negativa. Alle ultime elezioni dell’Anm, svoltesi nell’ottobre dello scorso anno, hanno partecipato 6.101 magistrati, che hanno distribuito i loro voti sulle cinque correnti esistenti.

Nelle elezioni per il Csm questi elettori, e presumibilmente buona parte anche degli altri, è prevedibile che si adeguino alle direttive della corrente di afferenza e agli accordi elettorali da questa stipulati con le altre tanto nel primo quanto e specialmente nel secondo turno di votazioni, sia nel singolo collegio sia su scala nazionale. In queste condizioni è anche difficile pensare che il magistrato eletto riesca a svincolarsi nelle singole decisioni che dovrà assumere nel Csm dagli indirizzi specifici proveniente non solo dalla propria corrente, come oggi accade, ma anche dalla coalizione che ha permesso la sua elezione.