Apparentemente va tutto bene nella politica italiana. Le elezioni si sono svolte legittimamente, hanno dato il proprio esito, stabilendo (salvo il secondo turno) chi ha vinto e chi ha perso. E tutte le analisi congiunturali possibili e immaginabili sono già state fatte. Anche sul piano nazionale formalmente va tutto bene. Esiste un governo che gode della fiducia delle Camere. Verrebbe dunque da dire che se formalmente va tutto bene, la generale sensazione di crisi cronica della nostra democrazia riguardi solo un problema politico, non istituzionale.

Anche il record storico di bassa affluenza che nelle elezioni locali mostra una partecipazione appena superiore alla metà degli aventi diritto (e addirittura meno alle regionali in Calabria) è solo lo specchio di questa crisi tutta politica. La colpa sarebbe solo ed esclusivamente dei partiti, incapaci, al di là di qualche fiammata elettorale, di offrire prestazioni soddisfacenti e durature; di costruire e gestire stabili rapporti con gli alleati, dell’assenza di personalità di spicco, con una proposta convincente e un carisma attrattivo. E il fatto che, a questo giro, i “vincitori” interpretino il proprio successo come capacità di aggregare e tessere alleanze (ammesso che ciò sia vero e soprattutto duri) confermerebbe, per differenza, che il problema sta tutto lì. È la politica che boccheggia, attaccandosi a qualche mini-exploit e promettendo ogni volta nuovi roboanti inizi.

Ciò spiegherebbe tutto: la bassa affluenza; il perché, in una temperie storica così delicata, sia stato necessario ricorrere alle capacità e al prestigio indiscussi di Draghi per compensare il deficit di capacità della politica, affidandosi alla surplus di legittimazione che deriva dal prestigio del “competente”. Se tutto ciò fosse vero (e in larga misura lo è senz’altro) non c’è molto che si possa fare. Si può solo sperare che la classe politica trovi le risorse per divenire più virtuosa, fare appelli perché essa recuperi un senso di responsabilità, di amor di patria. Ci si può augurare e magari attivamente invitare i giovani perché si impegnino in politica. Si può chiedere a chi non è andato a votare che ci ripensi e che dia il proprio contributo di cittadino. Ma al di là di questo afflato di etica civile (per chi ancora lo abbia) e di mozione degli affetti (patrii), non ci sarebbe molto altro da fare.

Nessuna democrazia può vivere senza la convinzione, la partecipazione e la fiducia dei cittadini. E dunque il richiamo all’etica civile è sicuramente importante. Ma non basta affatto. Soprattutto in una società delusa, preoccupata da paure e incertezze private, che non spingono all’ottimismo verso la politica, ritenuta, più a ragione che a torto (anche per motivi diversissimi e magari di segno opposto), responsabile di questo stato di cose. L’etica pubblica e il senso di responsabilità (dei rappresentanti e dei rappresentati) sono necessarie ma non sufficienti. Soprattutto perché l’etica pubblica e la responsabilità, come diceva Bobbio, non sono meri atti volontaristici. Hanno bisogno di pratiche. E le pratiche sono influenzate dagli incentivi e dai castighi, per dirla con Sartori. Cioè dalle regole. Finché continueremo ad analizzare la politica rimuovendo il tema cruciale delle regole e dunque delle riforme, continueremo, al netto di qualche fiammata elettorale, ad avvitarci in questo loop disperato e regressivo di rammarico e delusione per le sue cattive performance, senza considerare che se le cose vanno così, non è solo per ragioni latamente “morali” (o di scarsa etica pubblica), ma soprattutto perché il sistema di incentivi e castighi delle regole istituzionali consente, e anzi favorisce, questa degenerazione.

Non nasceranno mai statisti, se essere statisti non premierà più che essere “tattici del quotidiano”. Tra l’altro, quand’anche emergessero, verrebbero rapidamente fagocitati (come è successo) dall’opportunismo premiante di avversari e alleati. Non ci saranno mai governi (politici) capaci di governare, senza la stabilità che l’Italia non ha mai conosciuto. Non crescerà mai l’affezione nella politica, se la politica non sarà in grado di dare risposte e, nei momenti disperati, non potrà far altro che ricorrere ai papi stranieri. Anche perché, prima o poi, i papi stranieri concluderanno la propria opera e il rischio più probabile è che, dopo, si torni alla politichetta inconcludente che conosciamo.
Il ministro Giorgetti, nella sua intervista a la Stampa, ha auspicato che Draghi divenga il De Gaulle italiano. Pochi, però, hanno sottolineato che il merito di De Gaulle non è stato solo quello di salvare la Francia in un momento drammatico della sua storia, ma anche, e soprattutto, quello di “metterla al sicuro” per il futuro, anche per il “dopo”. La sua grandezza è stata di riuscire a emancipare il destino del suo paese dalla propria, importantissima, parabola personale.

Non so se Giorgetti alludesse anche a questo quando ha paragonato Draghi a De Gaulle. E nessuno può chiedere al presidente del Consiglio di farsi carico di concorrere a mettere l’Italia in sicurezza, promuovendo quel cambiamento istituzionale che solo ci può sottrarre alla certezza di un eterno ritorno dell’eguale… palude. Draghi è stato considerato l’unico in grado di traghettare l’Italia in questo momento così drammatico. E i fatti gli stanno dando ragione. E forse, senza necessariamente indulgere al culto della personalità, l’attuale presidente del Consiglio è anche l’unico in grado di propiziare e garantire quel processo di trasformazione che sopravviva alla sua, pur fondamentale, stagione.
Sarebbe un merito storico, oltre quello che Draghi sta già conquistando.

E sarebbe un bene per l’Italia, che potrebbe finalmente aspirare a una normalità di qualità, senza la quale la democrazia muore, aprendo la strada all’avventura. Servono incentivi e pratiche, cioè riforme, per realizzare questi obiettivi, non basta la mozione degli affetti e l’appello all’autorinnovamento spontaneo della politica. Veramente servirebbe un De Gaulle italiano.