Appunti di un tifoso
Ritratto di Franco Baresi, eroe malinconico, orfano eppure ricco di tutto

Nel giorno in cui il Milan, pareggiando coi bianconeri, non è saltato sul treno dello scudetto lasciando che l’Inter si possa involare nella sua direzione, ho ripensato a Franco Baresi. «Nessun altro giocatore ha mai capito così bene fisicamente lo spazio»: parole di Werner Herzog, poste in epigrafe a Libero di sognare, l’autobiografia del grande campione rossonero uscita pochi mesi fa da Feltrinelli. Cosa intendesse dire con quella frase l’autore di Aguirre, furore di Dio e Grizzly Man, per citare soltanto due suoi capolavori, è chiaro ad ogni appassionato di calcio, ma potrebbe essere utile ricordarlo a tutti noi, tifosi di questo sport metaforico della vita umana.
Un tempo il libero era posizionato dietro alla difesa, estrema scolta tesa a frenare la corsa del centravanti quando filtrava, in un modo o nell’altro, con le buone o le cattive, attraverso le maglie degli stopper, ma pronto a rilanciare il gioco appena ne intuiva la possibilità grazie a lunghe staffilate che, nei casi migliori, squilibravano la squadra avversaria favorendo il ribaltamento della partita. Nei primi anni Ottanta il numero sei, magro e filante, un fascio di nervi proteso al dominio della propria metà campo, cominciò ad avanzare in linea coi centrali, fino ad assumerne le sembianze e partecipare così attivamente, senza timori né frenesie, alla costruzione dell’azione. Franco Baresi, imbeccato dall’indimenticabile svedese Nils Liedholm, fautore della ragnatela, volta a mantenere a qualsiasi costo il possesso della sfera, fu uno degli artefici di tale trasformazione. Tutti ne ricordiamo la caratteristica duplicità atletica: il magnifico tempismo nei risolutivi interventi sui bomber e sulle ali, in grado di spezzare il loro pericoloso movimento, e le geniali ricuciture offensive che facevano ripartire la trama del palleggio a proprio vantaggio. Sorta di playmaker capace di incarnare lo spirito del gioco dettando dal basso la soluzione migliore per addormentarlo o accenderlo con guizzi improvvisi.
Prendere posizione: non è forse quello che facciamo ogni giorno nella nostra esistenza quotidiana? Questioni di scelte, opportunità, atti di volizione individuale. Franco Baresi era nato in una cascina di Travagliato, nella campagna bresciana, da una numerosa famiglia contadina: prima di lui, Lucia, Angelo e Beppe, che poi entrerà nelle file dell’Inter. Dopo, la piccola Emanuela, da tutti vezzeggiata. Il bagno stava all’esterno. L’acqua calda non esisteva. Per lavarsi i bambini mettevano la tinozza sul focolare. In questo mondo povero e sconsolato spiccavano la maestra, il prete e il primo allenatore. Il football, coi suoi caroselli di ritiri, trasferte e allenamenti, rappresentò la salvezza: perfino l’incontro con Maura, l’amore assoluto, in un ristorante di Montevarchi, assomiglia a una favola, perché lei era la figlia del proprietario del locale e lui sembrava troppo timido per dichiararsi. Fu necessario l’intervento, provvidenziale, del massaggiatore.
Milanello diventò il paradiso del Diavolo. Eppure c’è sempre stata un’ombra di malinconia nella vita trionfale di Franco Baresi, la cui leggendaria introversione, unita all’acume tattico, sollecitò la curiosità di Gianni Brera che lo chiamava Baresi II per distinguerlo dal fratello. Troppo presto erano morti i suoi genitori: la madre di malattia, il padre in un assurdo incidente col trattore. A soli quattordici anni il futuro campione era rimasto orfano. Sarà per questo che Federico Tavola, l’amico redattore, ha strutturato il libro a partire dalla sconfitta? Ogni capitolo infatti si apre con un corsivo che dilata gli interminabili secondi precedenti il fallimento del rigore di Pasadena, contro il Brasile, ai Mondiali del 1994 negli Stati Uniti. Prima il recupero lampo forse affrettato dopo un grave infortunio, poi i crampi durante la partita, infine la fatale indecisione al momento cruciale del tiro. Taffarel, il portiere verdeoro, esultante, il nostro libero in lacrime, inutilmente consolato da Arrigo Sacchi che su di lui aveva scommesso tutto.
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