Varcata la soglia della città di Dite, si apre una «grande campagna». Una pianura desolata e spettrale, «piena di duolo e di tormento». Una terra disseminata di «sepulcri». Un immenso cimitero, una città dei morti medievale. Stile Les Alyscamps, prototipo insuperabile della necropoli che ci portiamo dentro. «Tutti li lor coperchi erano sospesi». Dai sepolcri escono «sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d’offesi». Sono i «sospiri dolenti» de «li eresiarche con lor seguaci, d’ogne setta». Nelle arche fiammeggianti giacciono gli eretici, «Tra li avelli fiamme erano sparte». Spiriti ardenti in vita che, per contrappasso, ardono anche da morti. E non poteva essere diversamente visto che molti di loro erano stati arsi vivi nelle pubbliche piazze dalla furia dell’ortodossia religiosa.

L’eresia è l’ombra di Banco del sapere cattolico. L’insopprimibile critica delle dottrine teologiche, che periodicamente rimette in discussione i testi sacri. Dante non parla di Catari e di Valdesi ben presenti nella Firenze del suo tempo, ma appena può esalta San Domenico (canto XII del Paradiso che «ne li sterpi eretici percosse») e si ripara dalla temibile inquisizione domenicana. Gli eretici del X canto non hanno comunque pene atroci. Sono sì dannati, ma non degradati. Nei sarcofaghi giacciono uomini moralmente degni, uomini nobili. È il luogo migliore per incontrare due personaggi metaforici della vita politica del tempo. Innanzi tutto Dante realizza il «disio» di parlare con il «magnanimo» Farinata degli Uberti, che alla «nobil patria» fu «troppo molesto».

Il capo dei capi del campo imperiale. Quello che aveva cacciato i guelfi da Firenze. E quando saranno i ghibellini a essere esiliati, non esita da Siena ad organizzare la rivincita. Nel 1260 colora «l’Arbia di rosso» nella battaglia di Montaperti. Un massacro della gioventù fiorentina senza precedenti: diecimila morti e altrettanti prigionieri.
Rientra in un’attonita Firenze, ma dopo la sua morte i guelfi riprenderanno la città. Inizia così una lunga e sistematica epurazione. L’ortodossia viene dettata dai vincitori. E Farinata verrà condannato per eresia a diciannove anni dalla morte. Un processo farsesco ai suoi resti, riesumati dalla tomba nella Chiesa di Santa Reparata e gettati nell’Arno. I figli pubblicamente decapitati, i suoi parenti perseguitati e condannati al rogo. E, soprattutto, tutti i suoi beni confiscati dai nuovi padroni della città. La verità teologica è come la verità processuale, raramente coincide con la verità.

Noblesse oblige. E Farinata anche dagli inferi guarda sprezzante le macerie della sua sconfitta. «S’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno a gran dispitto» e può permettersi di guardare con «dispitto» la sua eterna pena.
La damnatio postuma poco aveva avuto a che fare con la fede. Qui Dante azzarda un’amnistia tra fazioni che «fieramente furo avversi». I buoni propositi di vivere senza nemici politici hanno origini lontane. E ora come allora rimangono propositi. Il discorso viene interrotto (per fortuna) da «un’ombra» che scivola accanto al poeta. È Cavalcante de’ Cavalcanti, che chiede angosciato di Guido: «Mio figlio ov’è?». Dante ci tiene a specificare che si trova nel regno dei morti guidato dalla ragione e dalla grazia. E aggiunge: «forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
A Cavalcante non sfugge il tempo remoto utilizzato dal poeta. «Elli ebbe? Non viv’elli ancora?». Quindi Guido è morto e, senza aspettare risposta, si rintana nella tomba «e più non parve fora». Una raggelante tragicità che maschera una narrazione molto strumentale. In effetti Dante parla al governo di Firenze. Con Farinata si accredita come guelfo della prima ora e con Cavalcante fa l’anima candida. Proprio lui, eletto priore di Firenze, aveva mandato Guido in esilio dove morirà di lì a pochi mesi.

Comunque, il ritratto di Cavalcanti padre piagnucoloso e questuante non rende giustizia alla levatura della persona. Più onesto il Boccaccio che lo descrive «leggiadro e ricco cavaliere, e seguì l’oppinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti carnali». Questa è la faccenda. I due incontri non aiutano ad approfondire la drammaticità dei sepolcri, che «da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l’anima col corpo morta fanno». Dante non aderisce alla vulgata dell’epicureo crapulone e godereccio, ma condanna senza argomentare la “vera” colpa di Epicuro: il suo ateismo materialista. Una negligenza già pervenuta; l’imbarazzo culturale di sempre. Niente è più ostico alla religione di Epicuro. Non è un caso che di tutti i suoi scritti (e Diogene Laerzio parla di oltre trecento rotoli di papiro) non ci resti nulla, se non tre lettere agli amici e il testamento. Nel corso dei secoli tutti hanno tentato di metterlo a tacere con censure e denigrazioni fuorvianti.

La filosofia epicurea è lo spauracchio dei devoti. Coloro che «l’anima col corpo morta fanno» non credono né alla Provvidenza, né al Destino, né alla Grazia. «Mentre la vita umana giaceva sulla terra, oppressa dal grave peso della religione, per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla» scrive Lucrezio, che ne condensa gli insegnamenti nel suo De rerum natura. Rincara la dose Nietzsche ne L’Anticristo: il filosofo greco «ha combattuto il cristianesimo, la corruzione dell’anima attraverso l’idea del peccato, quella del castigo e dell’immortalità». Epicuro in greco significa “alleato”. Sta al nostro fianco e ci aiuta a sconfiggere le paure che ci impediscono di vivere pienamente e pacificamente la nostra esistenza. E quale paura primigenia, madre di tutte le nostre ossessioni e fobie paralizzanti, va spazzata via se non la paura della morte?

Per riuscire nell’arduo compito e raggiungere la piena felicità terrena, la via seguita da Epicuro non è quella religiosa, ma quella “scientifica”. Alla base dell’universo ci sono solo gli atomi e il vuoto. E di conseguenza anche l’anima, come il corpo, si disgrega con il sopraggiungere della morte. «Anche tutta la natura dell’anima deve quindi dissolversi come si dissolve il fumo nelle alte regioni dell’aria» spiega Lucrezio. L’anima e il corpo crescono, invecchiano, e sono inevitabilmente «distrutte dal tempo». La morte non va più temuta perché quando c’è lei “noi non ci siamo” e non percepiamo più nulla. La minaccia del castigo divino post mortem è impotente: l’anima muore con il corpo e lo spauracchio della pena infernale non condiziona più la nostra vita terrena. La divinità, se c’è, sicuramente non si occupa delle faccende umane. Si può «godere della mortalità della vita», scrive Epicuro nella Lettera a Meneceo, solo se si elimina «la brama dell’immortalità». E chi davvero interiorizza queste idee «vive tra il uomini come un Dio».

Di fronte alla paura della morte, il maestro non invita i discepoli a trovare consolazione nel futuro dell’anima immortale, ma invita a volgere lo sguardo al passato, alla piacevolezza dei ricordi felici, alla gioia dei momenti condivisi. Poco prima di morire, colpito da dolori insopportabili, scrive sereno: «Ma a combattere tutto questo s’è schierata la gioia che provo nell’anima per il ricordo delle conversazioni che abbiamo avute». La felicità di chi può dire di aver vissuto una vita piena, la consapevolezza di chi, come canta Orazio, «può di giorno in giorno dire: – ho vissuto!». Una vera e propria liberazione che scuote la coscienza dei moderni (non a caso il giovane Karl Marx dedica proprio al pensiero di Epicuro la sua dissertazione di laurea). Sarà ancora una volta Boccaccio a ristabilire il vero. Alla fierezza indomita di Guido Cavalcanti dedica l’intera nona novella della sesta giornata del Decameron. L’autore di Donna me prega è descritto come «un de’ miglior loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale». E proprio la sua passione per la filosofia lo aveva fatto avvicinare all’epicureismo: «Egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri». Si vociferava che queste sue speculazioni «erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse».
L’altezzoso e superbo Guido Cavalcanti è la voce eterodossa del tempo novo, che specula sull’inesistenza di Dio e non fa mistero della sua vicinanza a un pensiero irreligioso.

Ma nella novella c’è di più. Mentre passeggia solitario e meditabondo, Guido viene disturbato da una banda di giovani aristocratici presso Porta San Giovanni, luogo di Firenze dove si trovano le tombe più antiche della città. «Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?» lo provocano i ragazzi intenzionati a «dargli briga». La risposta di Guido è talmente sorprendente, da inquietare ancora il lettore contemporaneo: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace. E posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò». Guido salta oltre le tombe e scompare tra gli archi di San Giovanni. I presenti rimangono attoniti, perché quella frase apparentemente «non veniva a dir nulla». Solo messer Betto Brunelleschi, il capobanda, riesce a dare una spiegazione: «siamo, a comparazion di lui e degli altri scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra».

Il salto che supera i sepolcri – quella che Betto definisce «la maggior villania del mondo» – pone il poeta-filosofo al di là del vociare superfluo di chi assomiglia a un cadavere, di chi è talmente spento da sentirsi “a casa” in un cimitero.
L’intellettuale è sempre dissonante, non cerca l’approvazione degli altri. Il balzo irreverente tra i sepolcri – proprio dove Dante confina e punisce gli eretici epicurei – sembra davvero una beffa postuma. In un balzo, Guido è libero «sì come colui che leggerissimo era». Italo Calvino fa di questa novella il paradigma della leggerezza: «Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero da automobili arrugginite». D’altronde, chi davvero vorrebbe vivere per sempre? Come si chiedeva un altro profeta del nuovo millennio: “Who wants to live forever when love must die?”