Con l’avvento del governo Meloni, il dibattito sul tema del merito si é inaspettatamente animato, in particolare in ragione della scelta di rinominare il Ministero dell’Istruzione in Ministero dell’Istruzione e (appunto) del Merito. Qualcuno, a sinistra, obietta: che merito c’è nell’essere nati in una famiglia che può favorirti? Che merito c’è nell’essere più dotati? In fondo, che merito c’è nell’essere più intelligenti?

Il tema c’è, intendiamoci, non ci scegliamo la famiglia in cui nasciamo né il DNA che ci viene dato in dotazione. E allora? Il tema si chiude qui? No, tutti riscontriamo quotidianamente e in ogni ambito, comportamenti meritevoli e degni di nota e comportamenti sciatti e banali. In ogni contesto possiamo osservare comportamenti che aggiungono valore e altri più vuoti e insignificanti.

Da cosa dipende? Dipende dal fatto che taluni scelgono di regalare al mondo il proprio talento (grande o piccolo che sia), altri preferiscono il ricorso agli alibi e alle recriminazioni. Il libero arbitrio si dipana proprio in questa scelta perché non siamo responsabili di ciò che ci viene messo nella culla, siamo però responsabili dell’uso che scegliamo di farne. Fra tutti i beni che ci vengono messi nella culla, quello più prezioso è il talento.

Ma c’è chi lo riceve in dono e chi no? Questa domanda rappresenta lo spartiacque fra una visione autenticamente umanistica, quindi incentrata su una concezione ottimistica della natura umana e le visioni più nichiliste che spacciano per realismo un atteggiamento cinico.

Per ragionare sul tema, occorre innanzitutto definire il talento. Cos’è il talento? Vi propongo questa definizione: attitudine innata grazie alla quale un individuo svolge con naturalezza un’attività normalmente considerata difficile. Se accettiamo questa definizione, facciamo nostra con più convinzione la visione umanistica secondo la quale ogni individuo possiede almeno un talento: non c’è persona, infatti, a cui non riesca di fare con naturalezza qualcosa di peculiare che per altri è magari difficile. Non necessariamente si tratta di attitudini artistiche o creative, il talento può riguardare aspetti più marginali ed anche apparentemente banali.

Sta di fatto che la finalizzazione del nostro particolare talento è il più potente strumento per dare davvero il meglio di noi stessi: in fondo, il “merito” deriva proprio dalla scelta di non rinunciare all’espressione del proprio talento.

La nuova epoca chiama ogni individuo a sfide inedite, si sta infatti esaurendo l’era delle garanzie e si sta affermando l’era delle opportunità. Ciò richiede l’adozione di un nuovo atteggiamento rispetto al talento. Il nuovo paradigma si fonda su alcuni principi di fondo:
• Ogni individuo possiede almeno un talento.
• Gli individui crescono più autenticamente investendo sul potenziamento dei propri talenti che non sul miglioramento delle proprie carenze.
• Non basta più individuare, in ogni ambito, le persone di talento, è oggi necessario identificare il talento di ogni persona.

Occorre mettere mano a politiche che favoriscano l’adozione del nuovo paradigma tanto nella scuola quanto nell’impresa: la conoscenza delle tecniche di talent identification dovrà rappresentare un irrinunciabile skill per l’esercizio di qualunque ruolo sia volto a promuovere la crescita degli individui. Per tutte queste ragioni, il tema del talento deve essere al centro della proposta politica degli innovatori del nostro tempo.
Se si saprà fare, non si risponderà solo a un bisogno contingente e finalistico, si risponderà innanzitutto a un bisogno esistenziale, giacché si può anche morire ignari del proprio talento, ma non si può vivere autenticamente senza ricercarlo.

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Esperto di leadership e talento, ha pubblicato diversi saggi con Sperling & Kupfer, Guerini e Feltrinelli, alcuni dei quali tradotti in più lingue fra cui il coreano e il giapponese. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali italiani e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo.