Fucilatemi, e buttatemi dove vi pare. “Voglia la S.V. Illustrissima, concedermi la grazia di farmi fucilare, giù nel cortile della prigione”. Anche senza rudimenti di psicologia, conoscenze del mondo carcerario o della mafia, lo si intuisce che la lettera di Salvatore Cappello al Presidente Mattarella non abbia nulla di strumentale, di falso, è autentico orrore, disprezzo pure, per il sistema delle pene italiano. Nemmeno una resa, solo la lucida consapevolezza che la morte sia meno dolorosa della vita. E l’accusa, fuori da ogni ipocrisia, allo Stato. Non sono emendabile, redimibile? Ammazzatemi. Fatelo voi, io non ve lo tolgo questo impiccio. Dovete avere il coraggio di fucilarmi e di non restituire il corpo alla mia famiglia, per condannare, loro non me, ulteriormente. Se alla parola mafia non si provvedesse, retoricamente, di aggiungere: giudici fatti saltare in aria, bambini squagliati nell’acido, servitori dello Stato e vittime innocenti falciati. Se non si associassero i crimini della mafia ai mafiosi, nulla offuscherebbe l’inumanità del trattamento riservato ai condannati per crimini mafiosi. Niente farebbe da alibi alla terribilità della pena che si infligge alle coppole storte.

Salvatore Cappello, boss catanese, in carcere da più di vent’anni, quasi tutti trascorsi al 41bis, esce dall’ipocrisia, chiede come unico beneficio quello di essere ucciso tutto in una volta e non a pezzi come è accaduto in questi anni. Che morto è morto da un pezzo. È un cadavere che si muove, e dopo aver prodotto dolore alle sue vittime, prima della galera, continua a produrre dolore anche dal carcere ai suoi familiari, che sono anche loro vittime sue, con la colpa di essergli parenti, che devono soffrire anche se non hanno altre colpe. E chissà se davvero le sue vittime di prima se la godano della sua sofferenza? Se ridono delle sue pene, di questa sua lettera, o ritengano che sia insopportabile questo dolore, esagerato, inutile? Chissà se davvero le vittime innocenti, conoscendo il trattamento di Cappello, di quelli come lui, approverebbero la cosa? O magari appoggerebbero la sua richiesta di grazia a morte? O si sentirebbero portatrici di vendetta, non di Giustizia? È che di carcere, del carcere del 4bis, del 41bis, non se ne parla sul serio, non ne parlano quelli che veramente ne conoscano i dettagli. Si fa un discorso da bar, o da talk show, che è la stessa cosa.

Se ne parla per sentito dire, per leggende. E Salvatore Cappello, con tutto il suo carico di responsabilità e sangue, rompe un muro, lo fa dalla sua parte sbagliata e rovescia le macerie dalla parte dei buoni: «Volete sapere cosa sia il 41bis, il fine pena mai? Eccovelo». È l’orrore che non finirà mai, la tragedia che cammina e infetta chiunque stia intorno al colpevole. È il buio 22ore al giorno, la solitudine senza confini temporali, la voglia di un uovo fritto mancata che non diventa voglia ma ulcera che perfora lo stomaco col bruciore di tutte le vite spezzate, tutto in una volta. La fine senza la fine, in una caduta che dura così a lungo dal preferire l’atterraggio nella lava. Anche i buoni, anche le vittime, se conoscessero davvero il 41bis, tiferebbero per Salvatore Cappello, scriverebbero: «Voglia la S.V. Illustrissima concedere la Grazia di far fucilare Salvatore nel cortile della prigione, e non restituire il corpo ai parenti». Forse anche le vittime innocenti, se sapessero cosa sia sul serio il 41bis, si opporrebbero all’uso che si fa dei loro torti.

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E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.