Nel gennaio 2000, in una frazione di Cesena, in Romagna, Massimo Predi uccise a martellate l’intera famiglia, madre, padre, moglie e figlia, e gettò i cadaveri dentro un pozzo artesiano nel cortile di casa. L’innamoramento per una giovane ragazza slava, il sogno di “un’altra” vita all’estero, l’avevano spinto a cancellare ogni traccia del suo passato, a “rimuoverlo” – in senso letterale – nel sottosuolo della casa. Quando fu fermato alla stazione di Bari, ai carabinieri che l’avevano riconosciuto rispose: “Sono un rumeno”. Nessun giornale sottolineò il fatto che fosse romagnolo, né si preoccupò di fare un qualche riferimento all’idea di famiglia che vige in quella regione, né sembrò sorprendente che la “straniera” o lo “straniero” in quel caso non fossero sinonimo di povertà, arretratezza, tradizionalismo, ma, al contrario, illusione di libertà e piaceri sconosciuti alle ristrettezze del proprio ambiente famigliare.

Se è vero, come si apprende dalle inchieste su scala mondiale, che la prima causa di morte delle donne è l’omicidio per mano di padri, mariti, fratelli, figli, amanti, vuol dire che il “boia domestico” non abita di preferenza in questo o quel paese, ma è per così dire di casa in ogni tempo e luogo. Inoltre, si può pensare che non sia solo l’ “onore” ferito dei suoi convincimenti virili, etici e religiosi, ad armargli la mano, ma anche il suo contrario: il desiderio di liberarsene. Gli uomini dunque uccidono, uccidono preferibilmente o coattivamente le donne, e questo, come si sa, è solo il traguardo estremo di una serie variegata di altre violenze per la maggior parte domestiche. Uccidono, in alcuni Paesi e culture, per ottemperanza a una legislazione arcaica desunta dalla lettura più o meno ortodossa dei testi sacri della loro religione, in altri, invece, in dispregio di tutte le leggi e i diritti acquisiti dagli Stati a cui appartengono. Uccidono sotto le dittature e sotto i governi democratici, nell’Occidente emancipato da remoti vincoli tribali e in Paesi già decimati da povertà e guerre. Uccidono per odio o amore, per affermare il loro potere o per sfuggire all’impotenza, per dare un segno di fedeltà a un ideale comunitario condiviso o per dimostrare che possono farne a meno.

Delitti di questo genere in Italia sono pressoché quotidiani, e i protagonisti finora sono stati indifferentemente connazionali e immigrati; evidenti spesso sono anche le analogie sia per quanto riguarda il movente che la messa in atto. Eppure su alcuni di questi casi l’attenzione sembra fermarsi in modo particolare, e capita, non a caso, quando si può interpretarli in chiave di “scontro di civiltà”. Del caso di Saman Abbas, la ragazza uccisa dal padre con il consenso dei famigliari, compresa la madre, per aver rifiutato il matrimonio con un connazionale e per il suo desiderio di integrazione nella nuova società di appartenenza, come ha scritto su questo giornale Luigi Manconi, si sono occupati quasi soltanto i media, a segnare la distanza tra i partiti politici e la realtà concreta delle migrazioni e delle comunità straniere. Impossibile non ricordare un caso analogo, quello di Hina Saleem nel 2006, la ragazza pachistana uccisa dal padre per aver assunto le abitudini e le libertà delle donne italiane, che, al contrario, coinvolse le maggiori istituzioni politiche, dal ministro degli interni Amato, al premier Prodi.

L’omicidio di Brescia cadde allora in un contesto di paura e ostilità crescente – verso gli immigrati mussulmani, pakistani in particolare -, che non chiedeva altro che trovare conferma. La campagna contro le migrazioni, viste come invasione della propria terra, minaccia di impoverimento, rischio di arretramento culturale, è tornata al centro del dibattito pubblico negli ultimi anni e, anche se si può considerare eclissata la propaganda salviniana per la chiusura delle frontiere, il respingimento in mare delle imbarcazioni dei profughi, i pregiudizi e le insicurezze restano, in una società economicamente in crisi, indebolita ulteriormente dalla pandemia. Ciò nonostante, a parte qualche residuo di anti islamismo, non si può dire che la violenza patriarcale che sta alla base dei femminicidi, a qualunque cultura appartenga l’aggressore, sia rimasta in questo caso invisibile. A sottolineare la complessità di esperienze dove si danno insieme appartenenze diverse – in questo caso di genere e di etnia, religione -, una intersezionalità a cui ci sta abituando un mondo globale, sono state non a caso giovani donne di seconda generazione straniera. Riconoscere che i femminicidi non hanno patria e che l’uomo che uccide ha quasi sempre le chiavi di casa, non significa ignorare il contesto culturale, storico e sociale in cui avvengono. L’ “invisibilità” della violenza patriarcale va stanata, soprattutto là dove meno ci aspettiamo di trovarla.

Scrive una giornalista di origine siriana e di fede islamica che vive in Italia, Asmae Dachan: «Qualcuno ha idea della reale tragedia che si è abbattuta sulle giovani barbaramente arrestate e poi abusate dagli uomini del regime siriano, come punizione per aver osato manifestare e chiedere libertà (…) Ci siamo mai fermati a pensare a bambine di 12 anni costrette a sposarsi, a subire cioè stupri “legalizzati”, per sfuggire alla miseria? Tutto ciò è accaduto e ancora accade sotto un cielo da cui per dieci anni sono piovute bombe di ogni tipo. Guerre nelle guerre, guerre in cui gli uomini decidono e combattono, commettono crimini e dettano legge, e le donne subiscono» (Vita.it, 8 giugno 2021). Guardata da questa angolatura, ha ancora senso parlare di Occidente e di Islam per una violenza che rimanda a un fenomeno strutturale ben più radicato delle vicende storiche e che proprio per questo ancora stenta ad arrivare alla coscienza? È così importante sapere se a uccidere è un padre pachistano che rivendica la donna come “suo possesso”, o un padre romagnolo che vuole liberarsene?

Parole di una saggezza e lucidità inedite sono ancora quelle di una giovane attivista di origine marocchina, femminista di seconda generazione, Wissal Houbabi: «La violenza maschile non è una caratteristica solo delle comunità islamiche. Bisogna sapersi districare tra la propaganda razzista e l’invisibilità di un sistema patriarcale. Serve una interpretazione intersezionale» (Intervista di Giansandro Merli, il Manifesto, 9 giugno 2021).