L’isolamento politico, distrettuale e nazionale, della Camera penale di Napoli induce ad alcune riflessioni da parte di chi a tale associazione è iscritto, ha rivestito cariche all’interno di essa e oggi condivide responsabilità in seno all’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi). Ho partecipato all’incontro tenutosi nel Tribunale di Torre Annunziata nel giorno di astensione delle Camere penali del distretto, proclamata in seguito all’ormai nota vicenda della “bozza di sentenza” trovata in un fascicolo da un collega prima di un’udienza in Corte d’appello.

A tale manifestazione non ha partecipato la mia Camera penale, il che mi ha fatto sentire a disagio: una sensazione sgradevole già provata, purtroppo, negli ultimi anni. Senza entrare nel merito della scelta che ha ritenuto di fare la Giunta – comunque non condivisa per numerose ragioni – credo che vivere in solitudine, senza porsi la domanda più ovvia del perché gli altri soggetti qualificati la pensino diversamente, sia un’operazione di raro narcisismo. L’intero Consiglio delle Camere Penali Italiane e la stessa Giunta nazionale hanno espresso solidarietà e sostenuto l’iniziativa dell’avvocatura della Campania, senza che alcun componente del direttivo napoletano si sia chiesto: «Ma può essere che stiamo sbagliando?» Quanto accaduto, sciaguratamente, non è altro che l’ennesima tappa di un percorso solitario che continua a far chiudere in sé la Camera penale partenopea.

Nel tempo, importantissime figure di avvocati hanno abbandonato l’associazione senza che tale “lutto culturale” abbia portato a un ripensamento sulla strada intrapresa. Napoli, così, è stata privata di un dibattito ad altissimo livello sull’importanza del grado di appello, in un momento in cui – a prescindere da quanto avvenuto proprio nel Palazzo di Giustizia cittadino – si discute della riforma di tale fase processuale. Gli interventi sono stati tutti di altissimo livello, tra gli altri mi sembra giusto citare quello di Ernesto Aghina, presidente del Tribunale di Torre Annunziata, perché rappresenta la voce di coloro che, nel processo, hanno un ruolo diverso dall’avvocatura. Quanto avvenuto in Corte di Appello a Napoli è stato definito un «episodio spiacevole» e il secondo grado di giudizio un «malato terminale». Ha rivelato che i bandi per occupare i posti in Corte di appello vanno deserti tanto che il presidente della Corte è costretto a imporre il trasferimento di giovani magistrati con la conseguenza che, in molti casi, il giudice di primo grado è più anziano e ha più esperienza di colui che dovrà successivamente valutare il suo provvedimento.

Situazione “paradossale”, mai accaduta in passato. Ciò è dovuto all’enorme carico di lavoro, che può produrre anche episodi, appunto spiacevoli. Da tempo, sul punto, l’Ucpi è intervenuta chiedendo una corposa depenalizzazione che possa riequilibrare il sistema nel quale non si conosce nemmeno il numero preciso dei reati. La strada da evitare è diminuire le garanzie del processo di appello. Nell’interesse di tutti e, come magistralmente affermato dall’avvocato Nicolas Balzano, dello stesso giudice che oggi è consapevole che un suo eventuale errore potrà essere riformato. È con altrettanto disagio e dolore che ho reso pubbliche – sia pur brevemente per ragioni di spazio – le critiche all’operato della mia Camera penale. Nonostante quanto accaduto in passato e l’ulteriore isolamento di oggi, non s’intravedono occasioni – prime fra tutte le assemblee degli iscritti – che possano consentire un costruttivo confronto, mentre il silenzio porta ad assopire il coraggio che l’avvocatura napoletana ha mostrato in passato.