Le sue condizioni di salute erano incompatibili con il regime detentivo. Francesco Iovino, 42 anni, non è stato soltanto il quinto suicidio dell’anno avvenuto tra le mura di un carcere campano. Iovino era una persona. Un essere umano che ha lasciato moglie e figlie. Eppure, nonostante l’evidenza delle relazioni mediche e del parere favorevole del magistrato di sorveglianza, il 42enne in cella ci è morto. Pesava poco più di 40 chili. Sono tanti gli aspetti poco chiari di questa tragedia. Una vicenda dai tanti interrogativi ai quali lo Stato dovrà dare una risposta.

«Mio fratello era malato – ha raccontato a Il Riformista Mario Iovinoqualcuno dovrà spiegarci il perché era recluso insieme agli altri detenuti». Ed ecco la prima domanda: ma Iovino non era recluso nel reparto del Servizio Sanitario Integrale (SAI)? I parenti hanno segnalato il contrario. Ieri mattina i familiari di Francesco sono andati al Secondo Policlinico di Napoli. Lì è stata fatta l’autopsia sulla salma del defunto. «Ufficialmente, anche se siamo in attesa dell’esito dei test tossicologici, la morte è avvenuta per asfissia – ha spiegato l’avvocato Carmine d’Aniello – Però sul corpo non sono stati riscontrati segni che potessero far pensare ad uno strangolamento o all’impiccagione». E c’è dell’altro: «Iovino aveva dei forti traumi con dei punti di sutura, alla testa e dallo zigomo all’occhio – ha affermato d’Aniello – si presume che sia stato picchiato in cella». È stato proprio il fratello di Francesco a denunciare le possibili violenze subite dalla vittima in carcere: «Massimo, un altro nostro fratello – ha detto Mario Iovino – ha sentito telefonicamente Francesco cinque giorni prima della sua morte. Lui si lamentava del fatto che gli altri detenuti lo pestassero. E dal responso dell’esame autoptico sembra che di recente possa aver avuto dei pugni al volto».

Francesco Iovino è stato dichiarato invalido civile e gli è stato dato l’accompagnamento. Le perizie mediche hanno confermato che soffrisse di anoressia mentale, bulimia, disturbi di personalità e depressione. Pare che già in passato avesse cercato di togliersi la vita tagliandosi le vene. A novembre scorso ha fatto il suo ingresso nel carcere di Poggioreale perché la sua pena, nel frattempo scontata ai domiciliari tranne che per una parentesi presso il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, era diventata definitiva. Detenuto per piccoli reati, nel 2024 sarebbe stato un uomo libero. «Mio fratello in carcere non doveva proprio entrarci – ha osservato Mario Iovino – Oltre alle patologie pregresse, rifiutava la nutrizione ed era alimentato con dei sondini che spesso e volentieri si staccava da solo». «Si muoveva sopra una sedia a rotelle e pare facesse abuso di oppioidi e benzodiazepine – ha dichiarato d’Aniello Non riesco a spiegarmi il perché dallo scorso giugno fosse recluso nel reparto “Milano” invece che in quello ospedaliero “San Paolo”».

Già perché? E soprattutto, considerato che il 42enne era stato affidato a un piantone, che fine avrebbe fatto quest’ultimo quando Iovino sarebbe stato percosso? Dov’erano le persone predisposte al controllo e che dovevano vigilare sulle condizioni di Francesco? «Non ci fermeremo finché non avremo la verità. Mio fratello e tutti noi vogliamo giustizia», ha detto Mario Iovino. Una giustizia che però in carcere diventa indifferenza, degrado, violenza e morte. «A luglio c’è stata un’udienza per la scarcerazione – ha spiegato l’avvocato d’Aniello – Avevamo anche trovato una casa di cura che avrebbe ospitato Iovino. Il magistrato di sorveglianza aveva dato la sua disponibilità nel dare i domiciliari. Lo avevo comunicato a Francesco la scorsa settimana. Insomma a fine mese sarebbe uscito, perché suicidarsi?». Magari Francesco era stanco delle violenze che avrebbe subito quotidianamente, chiuso in una cella con altri 5-6 detenuti. «L’amministrazione del carcere non ha neanche informato la famiglia del decesso di Iovino – ha concluso d’Aniello – Ho ricevuto io una telefonata da Poggioreale. Lo scorso lunedì, erano circa le 12.45, quando mi hanno comunicato della morte di Francesco». «Il carcere è un luogo di tortura – ha affermato Pietro Ioia, Garante per i diritti dei detenuti della città metropolitana di Napoli – Ad agosto il tempo diventa infinito e sospeso: niente attività, nessuna corrispondenza, pochi colloqui e mancanza di personale. Chissà perché i detenuti decidono di togliersi la vita prima di tornare in libertà. Forse hanno paura di affrontare ciò che li aspetta fuori». Bisognerebbe chiederlo alle istituzioni, quelle che rendendo le celle come tombe, hanno dimenticato l’articolo 27 della Costituzione e mortificato lo Stato di Diritto.