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Storie di ergastolani: quella pena infinita che arriva davvero fino alla morte
“L’ergastolo non esiste in Italia, massimo trent’anni ed esci”, è il luogo comune che circola nei bar, nelle trasmissioni televisive di “approfondimento”, financo nelle aule universitarie. Io ho conosciuto molte persone condannate alla pena infinita che è risultata davvero fino alla morte. Parlerò di alcuni casi di ergastolo applicato “in concreto”, anche se per me quello imposto “in astratto” è già concettualmente intollerabile. Perché il solo dire “fine pena mai” è un castigo medievale, un marchio d’infamia che sul corpo del condannato scolpisce un giudizio tremendo e senza appello: tu non cambierai mai. Nel solo carcere di Opera, in 8 anni e solo tra i partecipanti ai nostri Laboratori nel teatro intitolato a Marco Pannella, sono venuti a mancare 5 ergastolani.
Alfio Laudani
Alfio Laudani aveva quasi 80 anni, era in carcere dai primi anni ‘90 e arrivava da noi con le stampelle e con i piedi fasciati per il diabete mellito all’ultimo stadio. Poi non lo abbiamo visto più. Se n’era andato una mattina alle 5, dopo aver pregato l’Ave Maria, come faceva ogni giorno prima dell’alba ad alta voce, talmente alta che lo sentivano in tutta la sezione.
Giuseppe Di Benedetto
Giuseppe Di Benedetto è morto “per cause naturali”, dopo 34 “anni di branda”. Veniva ai nostri Laboratori in sedia a rotelle, tremante per il suo Parkinson, si metteva in prima fila e ascoltava i nostri discorsi. Una volta ha ascoltato in lacrime anche Antonio Aparo, un ergastolano a cui aveva ucciso il fratello, che lo aveva perdonato e che per lui aveva implorato da parte dello Stato, alla fine della sua vita, un atto di pietà che non è arrivato.
Francesco Di Dio
Mi piange ancora il cuore a ricordare Francesco Di Dio. Veniva ai nostri incontri con la sua faccia serena e sorridente, rotonda come una luna piena. Se n’è andato in silenzio, solo nella sua cella. Aveva 48 anni ed era in prigione da 30. Soffriva del morbo di Buerger, che si è incaricato di fare quello che il potere da tempo avrebbe dovuto e non ha fatto: sospendere l’esecuzione della pena per gravi motivi di salute. La malattia lo ha scarcerato un po’ alla volta, partendo dai piedi, amputati pezzo a pezzo, finché non è “evaso” del tutto, uscito – come si dice – coi piedi davanti, con le parti rimaste.
Permessi premio
Dopo la sentenza Viola contro Italia e la successiva “riforma” dell’articolo 4 bis, la corsa verso la libertà è diventata una corsa a ostacoli di vari livelli. L’assurdo è che quello più alto e difficile è posto all’inizio. Per avere un primo permesso premio devi superare l’inversione dell’onere della prova e una prova diabolica. Si chiama “onere di allegazione” e richiede al detenuto di dimostrare di aver cessato i collegamenti con il sodalizio al quale è appartenuto, spesso circa 30 anni addietro, e, ancor più arduo, l’impossibilità di ripristino. Sta di fatto che, secondo uno studio del Professor Davide Galliani, dopo la sentenza Viola, sono stati concessi solo 30 permessi premio a fronte di “1.270 ergastolani ostativi”! Lo stesso Marcello Viola, l’ergastolano che ha dato il nome alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, è la prova vivente di quanto sia difficile per gli ergastolani ex-ostativi vedersi riconosciuto il “diritto alla speranza” affermato nella storica sentenza. Marcello ha ottenuto un primo permesso premio dopo 33 anni di detenzione, dopo 4 anni dalla sentenza che porta il suo nome, dopo 4 gradi di giudizio e per solo 6 ore.
Claudio Conte
Claudio Conte aveva 19 anni quando è stato arrestato. Ignorava persino l’esistenza della Costituzione. L’ha scoperta e studiata in carcere con profitto. Ora è un dottore in legge impegnato in una ricerca sul nuovo paradigma della giustizia e della sua stessa vita: la giustizia che ripara e non separa, che non punisce ma riconcilia. Ha ottenuto il suo primo permesso premio un paio di mesi fa, dopo 35 anni di detenzione. Quando è uscito, ha chiesto solo di andare a camminare in uno spazio infinito, illimitato alla sua vista da barriere di ferro e muri di cinta.
Domenico Papalia
Domenico Papalia è forse l’ergastolano più ergastolano che c’è in Italia. È detenuto da oltre mezzo secolo. Quando è entrato in carcere c’era ancora la televisione in bianco e nero. Da allora, ha vissuto sempre nel grigiore e nel freddo delle sbarre e del cemento. Il carcere gli si è incollato addosso nella forma più odiosa di supplizio: la pena corporale. Le sue difese immunitarie sono venute meno, un tumore ha preso il sopravvento. Quando è cambiata la legge sui benefici, che ha modificato i requisiti per l’accesso, il tribunale di sorveglianza ha preso la palla al balzo e ritenuto inammissibile il permesso e rigettato la liberazione condizionale.
Il cimitero dei vivi
In carcere, parola che deriva dall’aramaico “carcar” e che significa sotterrare, ci sono persone anche di 70, 80 anni tumulate all’ergastolo da oltre 30 anni, che rischiano di passare dal “cimitero dei vivi” – come Turati chiamava il carcere – direttamente a quello dei morti. Sono solo dei casi? Fosse uno solo, eccezionale, il caso, è proprio lì che dovrebbe valere il Diritto, cioè il limite che lo Stato pone a sé stesso nell’esercizio della sua potestà punitiva.
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