La mise en abyme è una espressione che indica una tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di se stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. Il termine ha origine in araldica, dove descrive uno stemma che appare come uno scudo al centro di uno scudo più grande. A un analogo accorgimento ricorsivo fa riferimento il cosiddetto “effetto Droste”. Un’immagine in cui è presente l’effetto Droste possiede una piccola immagine di se stessa, localizzata dove dovrebbe trovarsi se si trattasse di un’immagine reale. Questa piccola immagine, inoltre, contiene a sua volta una versione ancora più ridotta di sé, e così via. Tecnicamente non c’è limite al numero di iterazioni, ma in pratica si continua fino a quando la risoluzione permette di distinguere un cambiamento. È quello che si verifica con le intercettazioni.

Da molto tempo l’avvocatura, la dottrina più illuminata, ma anche la magistratura più garantista, hanno denunciato una serie di distorsioni legate all’uso indiscriminato delle intercettazioni, spesso costituente una sorta di scorciatoia probatoria per giungere ad un risultato di provvisoria colpevolezza, strombazzato e amplificato dai media. Si tratta di antichi mali del processo che hanno assunto varie etichette, quali il gigantismo delle indagini preliminari, rispetto alla originaria centralità del giudizio, l’emarginazione della difesa in questa fase iniziale, la scarsa o nulla rilevanza e attenzione alle vittime, la prevalenza dell’uso delle intercettazioni quale pressoché unica fonte investigativa, le cosiddette intercettazioni a strascico dove, ipotizzato un reato, se ne scoprono via via tanti altri, sicchè quelle intercettazioni vengono poi usate in svariati processi, sovente legati solo dalla circostanza che le intercettazioni sono le medesime per i fatti più diversi e disparati.

Completano spesso questo quadro desolante la mancanza di qualsiasi riscontro a quanto emerge dalle intercettazioni, la mancata ricerca di interpretazioni diverse da quelle proposte da chi ha ascoltato le conversazioni intercettate, le prassi distorte di ascoltare le conversazioni a distanza di tempo quando i riscontri immediati non possono più utilmente compiersi, la consegna da parte della polizia giudiziaria al Pubblico Ministero a distanza di mesi o addirittura di anni della informativa in cui vengono spiegate le conversazioni intercettate ai fini della sussistenza dei reati e della loro attribuibilità a soggetti determinati.

I tempi delle indagini si allungano sempre di più, il ricorso indiscriminato alle intercettazioni come unica fonte di prova determina altresì un innalzamento dei costi della giustizia, come attestato dal bilancio sociale esposto dalle procure più importanti, che indicano proprio nei costi per le intercettazioni la maggiore fonte di spesa. Eppure il legislatore aveva concepito da sempre il processo penale come un processo che si svolge nei confronti di singole persone e per fatti determinati; eppure il legislatore aveva raccomandato particolare attenzione nell’uso delle intercettazioni proprio per il loro carattere decisamente invasivo del diritto alla riservatezza e alla libertà delle comunicazioni, costituzionalmente protetti; e proprio perché ove necessario, le intercettazioni possono esser compiute anche nei confronti di persona non indagata né imputata, e solo qualora ciò sia indispensabile al fine trovare la prova di colpevolezza.

La recente sentenza delle Sezioni Unite, ormai nota come sentenza Cavallo, sembra porre un argine all’uso indiscriminato delle intercettazioni in processi diversi e per reati diversi da quello nel cui ambito furono autorizzate, e ciò in quanto l’autorizzazione del giudice non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive anche l’utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all’autorizzazione stessa risultino riconducibili: è questo l’insegnamento della Corte Costituzionale che fin dal 1991, con la sentenza numero 336, aveva avvertito che l’intercettazione deve dar conto dei soggetti da sottoporre a controllo e dei fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede.

Sulle pagine di questo giornale autorevoli studiosi, magistrati, avvocati e docenti hanno ben spiegato come la Corte di Cassazione abbia interpretato la nozione di diverso procedimento e i limiti entro i quali le intercettazioni possano essere utilizzati in un diverso procedimento, che deve essere legato a quello originario da una connessione qualificata, ovvero quando i reati siano stati commessi in concorso da più persone, ovvero dalla stessa persona con un’unica azione ovvero con più azioni ma in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, ovvero se i reati diversi siano stati commessi per eseguire o occultare altri reati e sempre che le intercettazioni per tali diversi reati siano indispensabili e si tratti di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e che rientrino nel catalogo dei reati previsti dalla legge.

Le Sezioni Unite hanno rimarcato, infatti, che l’utilizzazione probatoria dell’intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di sottolineare, nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti. Questa interpretazione assolutamente condivisibile della Corte rischia però di esser vanificata dalla (contro)riforma delle intercettazioni varata di recente dal ministro della Giustizia, le cui difficoltà interpretative ed esecutive sono dimostrate dai numerosissimi rinvii alla sua entrata in vigore (l’ultimo disposto col decreto legge 28 del 30 aprile 2020 che ha spostato al primo settembre l’entrata in funzione della nuova legge).

La filosofia della riforma è improntata a un ampliamento dei casi in cui è possibile ricorrere alle intercettazioni, in particolare a quelle a mezzo di captatore informatico: un virus che all’insaputa dell’intercettato viene iniettato in un dispositivo di comunicazione informatico e funge da microfono e telecamera attivabile da remoto. La riforma appare ispirata anche a un ampliamento dei poteri del Pubblico Ministero, cui è affidato l’archivio informatico in cui sono custodite le intercettazioni, e a un ennesimo ed ulteriore ridimensionamento delle facoltà difensive in quanto, da una prima lettura della norma, sembra che i difensori, come avvenuto di recente a Perugia nel cosiddetto processo Palamara, potranno nella fase iniziale solo ascoltare le intercettazioni ma non estrarne copia, con tutte le immaginabili difficoltà di dover ascoltare migliaia di ore di intercettazioni in tempi ristrettissimi e senza poter fare altro che prendere qualche nota. Ma questo è un altro capitolo del disastro della giustizia in atto.