Si è fatto sentire l’impatto negativo, ieri, sulle Borse europee determinato dalla decisione della Federal Reserve di aumentare i tassi di riferimento di 75 punti base, nonché dalla prospettiva di un ulteriore aumento, a non molta distanza, della stessa percentuale. Vi ha concorso l’aumento ulteriore del prezzo del gas nonché la limitazione delle forniture decisa dalla Russia, con tutto ciò che significa anche in termini di aggravio delle incertezze sugli sviluppi della guerra e, più in generale, sulla situazione geopolitica.

Ma, prima, mercoledì, il Consiglio direttivo della Bce, in seduta straordinaria, ha dato mandato alle strutture tecniche per mettere a punto uno strumento per evitare la frammentazione della trasmissione, nell’area, della politica monetaria, in sostanza per intervenire sugli spread che, per quanto riguarda quelli Btp-Bund, si stavano pericolosamente allargando. Se non si fosse intervenuto, si sarebbero unite a quelle della Fed le ripercussioni delle decisioni della seduta del Consiglio della Bce del 9 giugno che ha deciso di aumentare di 25 punti base i tassi ufficiali e di porre fine al “quantitative easing”, avviando in questo modo la normalizzazione della politica monetaria, ma senza dare concretezza alla misura anti-frammentazione solo vagamente enunciata. Allora si è verificato il primo serio caso della convocazione di una seduta, a soli sei giorni da quella precedente, al di fuori delle riunioni previste dal calendario per la politica monetaria e considerate finora dalla Bce come da rigidamente osservate, nonostante gli inconvenienti che possono derivarne a danno di una, a volte necessaria a volte opportuna, flessibilità decisionale.

Il fatto è che, per la reazione degli spread e dei mercati, si è capito l’errore commesso con la genericità e il non coerente seguito dell’annuncio dato e si è cercato di riparare rapidamente. È una lezione per il futuro, ma anche la conferma delle carenze della comunicazione istituzionale della Bce, mentre la politica monetaria diventa sempre più comunicazione. Non è l’aumento di 25 punti base dei tassi la pietra dello scandalo. L’incremento era previsto sin da aprile e, d’altro canto, risponde alle regole vigenti, considerato che il mandato (l’unico) conferito alla Bce dal Trattato Ue riguarda il mantenimento della stabilità dei prezzi che viene concretata nel tasso di inflazione del 2 per cento “simmetrico” secondo una prospettiva di medio termine, con l’obbligo per l’Istituto di agire in un senso o nell’altro per riportare l’inflazione a tal obiettivo: per l’anno in corso, la stessa Banca centrale stima un aumento dei prezzi a oltre il 6 per cento. Sarebbe possibile, a questo punto, non ridurre il carattere accomodante della manovra monetaria, avendo presente che siamo ancora ai tassi negativi (quelli sui depositi presso lo stesso Istituto centrale) che perché diventino “neutri” bisognerà attendere l’aumento di un altro 0,25 per cento? Si potrebbe accettare passivamente la risalita dell’inflazione?

Gli errori gravi commessi dalla Bce sono altri: aver dichiarato per circa due anni che l’inflazione era transitoria, configurandosi così una vera contraddizione in termini, dato il trascorrere, appunto, di un tempo confliggente con la transitorietà e rinunciandosi a un’opportuna strategia d’anticipo che sarebbe stata meno “costosa”; avere condotto una comunicazione inadeguata, generica; avere, appunto, omesso di accompagnare, come si è detto, l’aumento dei tassi e la fine del “quantitative easing” con lo scudo anti-spread definito in tutti i suoi aspetti e pronto a entrare in funzione. Vi sarà molto da cambiare, ma è una chiara forzatura vedere in errori del genere un atteggiamento anti-italiano, come è stato detto. Piuttosto, ritorna il difetto dell’Unione monetaria – visto ben prima che fosse varata da quel grande Governatore che è stato Paolo Baffi – dell’inadeguatezza a intervenire nei casi di shock asimmetrici nell’area.

Ora, però, che è stato varato il progetto dello “scudo”, bisogna chiedersi quali saranno le risorse all’uopo impiegate, se riguarderanno solo i reinvestimenti dei programmi precedenti, o vi saranno altre risorse; se gli interventi saranno condizionali e di quale tipo; quale sarà il livello che segnalerà esservi un problema di frammentazione della trasmissione della politica monetaria; come si raccorderanno gli interventi con altre misure promosse dall’Unione, a cominciare dal Next Generation Eu; quale sarà la comunicazione. Sono interrogativi a cui sarebbe opportuno si dessero tempestive risposte. Anche in relazione alle decisioni di altre Banche centrali è necessario uno stretto raccordo, almeno tra le principali a livello globale.

Ma il problema dell’inflazione non è solo della Bce; deve concorrere anche l’azione dei Governi e delle Istituzioni comunitarie ai quali più direttamente compete pure il perseguimento dell’obiettivo, di pari rilievo, della crescita e del lavoro. Dunque, è necessario un raccordo tra politica monetaria e politica economica e di finanza pubblica a livello centrale e nazionale, nel rispetto delle reciproche autonomie. In questo quadro, per l’Italia, centrale è il problema del debito e della crescita. Come si vede, il “che fare” va ben oltre la manovra monetaria, ma questa mantiene il suo carattere cruciale per cui una sua eventuale inadeguatezza rischia di pregiudicare le ulteriori diverse azioni degli altri Organi. Non è più il tempo di “whatever it takes”, anche perché questa celeberrima espressione -monito veniva dopo che il Consiglio europeo aveva dichiarato all’unanimità il “ favor” perché la Bce acquistasse titoli pubblici sul mercato secondario. Ma a quello schema, a quel “ sequitur” è opportuno continuare ad ispirarsi.