La guerra ha cambiato profondamente il quadro politico. Con quali effetti di sistema è ancora arduo prevederlo. Intanto, è evidente il nuovo ruolo di Draghi. Il suo mandato non è più quello della destinazione dei fondi per la ripartenza. I viaggi continui per il mondo segnalano un attivismo frenetico in campi non strettamente economico-finanziari. La dimensione internazionale ha assorbito le preoccupazioni dell’esecutivo, diventando anzi il terreno principale della sua missione. Accompagnato tra gli altri anche dal fido Ministro degli esteri, il Presidente del Consiglio ha confermato che tra il tecnico e il populista non esiste poi una differenza così significativa nel trattare i nodi delle relazioni internazionali.

Comune ad ogni interprete della politica è il codice con il quale sbrigare i rapporti tra gli Stati e quindi dirimere anche le cose turche (gestione del caos libico e condivisione di tecnologie militari). Come Di Maio è stato lesto nel passare dal piano di insurrezione a fianco dei gilet gialli alla corte di Macron, così anche Draghi non ha avuto scrupoli nel riverire il “dittatore” necessario che pure in tempi recenti aveva definito in termini morali poco lusinghieri. Le regole del realismo politico, del resto, non lasciano scampo. E la battaglia del grano, il rafforzamento dei legami commerciali, la necessità di tessere rapporti entro il campo minato dell’Alleanza atlantica per rinsaldare il fronte orientale, hanno richiesto al governo italiano di lasciar cadere i soavi precetti della morale dinanzi al recupero dei necessari simboli della riverenza per il sultano artefice della riforma presidenzialista del 2017. Il problema è che Draghi, nelle dichiarazioni in Parlamento e nelle parole spese in giro per il mondo, ha declinato in un senso altamente etico la guerra. L’ha descritta come uno scontro definitivo tra la democrazia e i nemici autocratici della società aperta. Solo alla luce di questa visione moralistica delle relazioni internazionali appare oggi stridente il disinvolto azzeramento degli imperativi etici per immergersi in un bagno turco dei principi del realismo.

La convinzione è la solita. Gli amici delle democrazie diventano, per effetto di un contagio benevolo, democratici anch’essi e per questo non esistono remore nel chiudere occhi e sbarrare orecchie sulle pratiche illiberali del regime della “democraturca”. Il senso elevato della missione atlantica ha spinto Draghi a decidere in gran fretta un arruolamento nell’esercito salvifico dei buoni dell’autocrate elettivo di Ankara nemico giurato della Grecia, che vende caro il suo dinamismo strategico e non esita a strizzare l’occhio verso Mosca. Mentre si spingeva con determinazione nel cucire la compattezza del campo occidentale contro i russi (“Italia e Turchia sono unite nella condanna dell’invasione russa dell’Ucraina e nel sostegno a Kiev”), rispolverando anche la storia antica dei Levantini come segno di una consuetudine secolare con i turchi, il Presidente del Consiglio ha ritenuto opportuno lanciare messaggi al partner di governo più riluttante nel sostegno alla strategia bellica. E, per rassicurare la Lega “pacifista”, ha scandito messaggi espliciti. Ogni cosa ha un suo prezzo.

A beneficio di Erdogan (“Italia e Turchia sono partner, amici alleati”) la contropartita è parsa quella di servire sul piatto del despota elettivo l’indifferenza per il destino dei curdi sotto il fuoco del dittatore ora amico. In onore di Salvini è stato invece bandito un banchetto in cui la pietanza forte erano le parole inattese sui migranti come una grande minaccia (“un Paese che accoglie non ce la fa più”). Quanto più il programma economico del governo arranca, strattonato dalla spiacevole realtà dell’inflazione fuori controllo, e il piano di ripresa e resilienza mostra segni di cedimento, dinanzi a vecchie e nuove emergenze strutturali, tanto più con determinazione l’esecutivo “senza formula politica” si orienta nella dimensione internazionale. Il destino di trovare riparo agli scacchi economici nelle parabole della politica estera e militare accomuna Erdogan e Draghi. L’impossibile rilancio modernizzatore del capitalismo italiano suggerisce di trovare altre sponde per aggrapparsi a qualcosa nel disperato tentativo di non perire. Negli ultimi anni le esperienze di crisi hanno prodotto un visibile asse tra Quirinale e Palazzo Chigi a guida tecnica come casamatta del potere per gestire le pratiche emergenziali.

Dal telefono amico che concordò le tappe forzate della destituzione di Berlusconi alla sollecitazione che suggerì la rimozione di Conte dinanzi alla pioggia di miliardi provenienti da Bruxelles, la pressione delle cancellerie europee e degli imperatori d’oltreoceano è stata un fattore cruciale nei passaggi della vita politica italiana.
La novità di questa fase è che, mentre Napolitano sentiva il comandante in capo ma poi ascoltava anche i piani di Sarkozy o Merkel che concordavano le strategie di un indispensabile e autonomo protagonismo europeo, oggi a squillare per dettare lo spartito è solo il telefono della Casa Bianca. La decadenza della qualità e del prestigio delle leadership europee (per non parlare delle disavventure del proconsole Johnson, che pure dovrebbe guidare le truppe europee in un disperato assolo a contenuto bellico) è tale che la voce del vecchio continente risuona flebile e smarrita. Non esiste più un asse euro-atlantico, si ascolta solo la incerta invocazione di un comandante in capo che ordina il suicidio assistito ad un Vecchio continente acefalo che viene trascinato nel pantano della guerra infinita. Fallita la missione della modernizzazione del capitalismo italiano, grazie alla pioggia di miliardi che avrebbe consentito un indispensabile patto temporaneo tra capitale e lavoro, Roma diventa con Draghi la provincia obbediente, ma irrilevante, di un impero che non sa gestire, senza contraccolpi distruttivi, i tempi del proprio ineluttabile declino.

Un’Europa con l’elmetto, che ingaggia anche un Draghi viaggiatore nella sua metamorfosi bellica, non serve. Non aiuta la Russia, scacciata dal sistema politico-culturale-economico continentale e quindi destinata a prove lunghe di inimicizia. Non serve alla Cina, che malgrado il suo incedere sostanzialmente pacifico viene indicata come un terribile nemico sistemico. E, in fondo, neppure all’Impero conviene un’Europa soldato. Accettare il tempo del declino della propria egemonia sarebbe per l’Impero molto più saggio, consentirebbe persino di durare più a lungo, mentre lo scontro nel segno di una ritrovata volontà di potenza accelera il tramonto e rende più drammatici i suoi costi.