Il dibattito pubblico sui temi dell’antimafia è, da troppo tempo e sempre più spesso, preda di dogmatismi preconcetti, faziosità ideologiche e chiusure corporative che attentano irrimediabilmente alle virtù discorsive del confronto democratico, pregiudicando la formazione di un’opinione pubblica avvertita e colta. Accade, così, che la preoccupazione di acquisire o mantenere posizioni di rendita nel maistream delle idee finisce per far velo alla dimensione giuridica delle questioni in gioco. In particolare, alla consapevolezza che queste ultime interpellano (devono interpellare) il quadro dei principi entro cui lo Stato costituzionale – la forma storicamente più matura dello Stato di diritto, del modello, cioè, di organizzazione politica dei rapporti sociali consegnatoci dalla Modernità – si impegna a lottare contro le aggressioni alla convivenza civile.

Di qui, l’irrinunciabile ufficio della cultura giuridica di riportare al centro della riflessione – anche laica – un approccio di tipo istituzionale, nel tentativo di immunizzare la discussione civile dalle spinte compulsive e dalle tensioni emotive di quanti hanno interesse, o anche solo l’abitudine, a trascinare la materia nel foro della piazza esponendola alla logica del crucifige. In questo contesto, un aspetto meritevole di esplorazione, per la complessità dei significati e delle implicazioni che presenta, riguarda la matrice – democratico/legislativa o (significativamente) giurisprudenziale – del diritto penale della criminalità mafiosa. Si tratta di un problema cruciale per gli equilibri dello Stato costituzionale c.d. di civil law che alla separazione tra potere legislativo e potere giurisdizionale nella materia penale affida un tratto identitario che la stessa giurisprudenza della Consulta qualifica come carattere supremo dell’ordinamento repubblicano.

In rapporto al diritto penale della criminalità mafiosa, il tema assume un rilievo peculiare, collocandosi addirittura alle sue origini. La stessa introduzione dell’art. 416-bis del codice penale – in pratica, l’atto di battesimo del diritto penale della mafia – è risultata essere la trasposizione legislativa delle acquisizioni ermeneutiche del formante giudiziario esercitatosi sul terreno della nozione di indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso rilevante agli effetti delle misure di prevenzione. È possibile affermare come da allora, l’esperienza del contrasto penalistico alle forme dell’agire mafioso abbia registrato un dominio delle funzioni connotative delle dinamiche giurisprudenziali sulle prestazioni denotative della legge, asseverando una meccanica eversiva delle relazioni istituzionali in un campo coperto per statuto costituzionale alla riserva di legge.

In pratica, molte delle condotte umane che oggi entrano nello specchio della rilevanza penale – e da qui nel fuoco dell’attività investigativa e del processo – anziché essere delineate con chiarezza, e precisa delimitazione dei loro confini, da disposizioni legislative che si offrono alla comprensione diretta dei cittadini, sono l’esito di decisioni assunte nel circuito del diritto di formazione pretoria. Alcune di queste vicende sono fin troppo note, appartenendo alla polemica civile e politica di questi anni. Innanzitutto il riferimento va al controverso istituto del concorso esterno. Chi ne difende la legittimità opera spesso una sovrapposizione di piani del discorso. Da un lato, osserva che il congegno, lungi dall’essere una creazione ex nihilo della giurisprudenza, vanta una base legale indiscutibile, rappresentata dalle disposizioni sul concorso criminoso e sul reato associativo.

Dall’altro, rivendica la ragionevolezza del modo con cui esso vive nella giurisprudenza. È facile replicare che la pretesa base legale è cosa affatto diversa dalla legalità dell’incriminazione, la quale esige(rebbe) che il comportamento punito sia (o fosse) compiutamente decritto dalla legge, vale a dire alla fonte cui deve potersi far risalire la responsabilità politica della scelta normativa. Oggi chi volesse sapere cosa viene incriminato, e con quali pene, a titolo di concorso esterno farebbe opera vana se si limitasse a sfogliare il codice penale. Con proficuo realismo, dovrebbe farsi carico del ben più impegnativo e assai arduo (per il quisque sguarnito di rudimenti giuridici) compito di inoltrarsi nello studio della giurisprudenza, consultandone i repertori e addentrandosi nel dedalo reticolare della sua casistica. Apprenderebbe, così, che la struttura del concorso esterno corrisponde a un frattale o a un’entità a geometria variabile, mutando in rapporto ai differenti casi tipologici nei quali si frantuma la sua esperienza applicativa, quali lo scambio elettorale politico-mafioso, la collusione imprenditoriale, l’asservimento professionale e l’aggiustamento dei processi.

Le cose non vanno molto diversamente sul versante della condotta di partecipazione associativa di stampo mafioso. Qui, complice una recente presa di posizione del vertice allargato della Cassazione, è ritornato in auge lo sfuggente concetto di “messa a disposizione”, col risultato che il reato non appare ricostruibile in astratto, e in via generale, bensì solo “in concreto”, cioè secondo una valutazione giudiziale ex post facta. Si tratta di una situazione che, complessivamente valutata, chiama pesantemente in causa la responsabilità del legislatore, vale a dire della politica. La quale può ben dirsi che abbia delegato al potere giudiziario il compito impegnativo – ma ineludibile secondo il disegno costituzionale – di stabilire con chiarezza le forme dell’agire associativo e le condotte collusive di sostegno esterno ai sodalizi mafiosi da incriminare. È inaccettabile che la politica continui a lasciare inadempiuta questa responsabilità; lo è ancora di più se poi si pretende di stigmatizzare, etichettandole ineffabilmente come indebite invasioni di campo da parte della giurisdizione, l’applicazione di istituti che si è neghittosamente lasciati al governo del potere giudiziario. Lo pretende la democrazia costituzionale!