1. L’affermarsi del populismo penale nelle democrazie liberali è fenomeno indagato dalla dottrina giuridica, con risultati spesso eccellenti. Difficile farsi largo in una bibliografia ormai copiosa, che uno scaffale di libreria fatica a contenere. Ci riescono, invece, Luigi Manconi e Federica Graziani con il loro recentissimo volume Per il tuo bene ti mozzerò la testa (Einaudi), azzeccando alcune mosse provocatoriamente intelligenti e narrativamente intriganti.

2. La prima è l’assunzione del populismo penale a fenomeno sociale di cui ricercare la causa oltre gli steccati dell’analisi giuridica. E quel qualcosa che lo precede, determinandolo, è denunciato nel sottotitolo del libro: Contro il giustizialismo morale. Contro, cioè, «quell’orientamento politico che persegue un concetto assoluto e astratto di giustizia, che non ammette alternative alle proprie convinzioni morali». Una Giustizia con la “g” scolpita in maiuscolo, che non conosce la finitezza delle cose umane, dunque totalmente disincarnata, da perseguire attraverso la clava penale. Costi quel che costi.

I pericoli di una visione così totalizzante si odono già nel grido «onestà-onestà-onestà», il cui suono onomatopeico e futurista («tà-tà-tà») molto ricorda la raffica di mitra che, facendo strage di legalità, prefigura strage di vite umane. Lo diceva sempre Marco Pannella, non a torto. Lo ripetono ora Manconi e Graziani ricorrendo a un profetico aforisma di Piergiorgio Bellocchio: «Beati gli affamati di giustizia perché saranno giustiziati». In uno Stato di diritto, infatti, la legalità è regola previa, è misura e limite al potere, serve a domarne la forza coercitiva. La sua ratio rifugge dalla logica del fine che giustifica i mezzi, perché i mezzi usati prefigurano sempre (e pregiudicano spesso) il fine dichiarato. E la storia del ‘900 insegna che non esiste limite al male, quando è fatto a fin di bene.

3. Figura paradigmatica di tale ideologia è il direttore del Fatto Quotidiano. Eroe popolare della caccia all’uomo (perché non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca), alla fenomenologia di Marco Travaglio sono dedicati i primi due capitoli, ma la sua idealtipica presenza esonda negli intermezzi del libro, fino all’appendice finale sul populismo in tempi di pandemia.

Frontman dei «moderni lugubri inquisitori», a Travaglio gli autori applicano la nemesi del suo stesso metodo d’indagine: l’attenzione ai dettagli. Acribiosa è, infatti, la radiografia del suo approccio alla realtà, animato da smania di assoluto, dedizione fanatica alla causa, alterigia, ostentata superiorità morale, straripante vis polemica. Eguale meticolosità è dedicata ai suoi tic espressivi: le deformazioni onomastiche degli avversari (propria della pubblicistica neofascista), gabbate per satira ma che non vanno oltre lo sfottò da addio al celibato; «il tono e il colore ferrigno e cruento» del vocabolario; le metafore attinte, non a caso, da categorie e procedure simil-giudiziarie; il ghigno malcelato da sorriso, che comunica stizza e stigma.

Bulimico accumulatore di fatti che, sommati, restituirebbero una sola evidente verità, in Travaglio viene così meno un qualsiasi tipo di elaborazione teorica. Se così è, più che l’ispettore di polizia Javert raccontato da Hugo ne I miserabili (cui è accostato dagli autori), al lettore ricorda Funes, il personaggio borgesiano dalla prodigiosa memoria, che distingueva per nome ogni foglia di ogni albero di ogni montagna ma non riusciva a capire il concetto di foresta. E come Funes, anche il travagliato direttore del Fatto Quotidiano finisce per essere «il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso» (Borges, Funes o della memoria).

4. Il populismo penale italiano è più vecchio del proprio corifeo. Allo stato nascente, è già nelle esperienze dell’Uomo Qualunque e di certe testate reazionarie (Il Borghese, Candido, Lo specchio), cresce nei talk-show che porgono il microfono alla “gente” (Aboccaperta, Samarcanda), si proietta nell’agone politico (La Rete orlandiana, L’Italia dei Valori dipietrista) e, infine, dilaga quale «strategia diretta a ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata nella popolazione dalla criminalità».

Usando come fil rouge i dialoghi tra i dodici giudici popolari del memorabile esordio cinematografico di Sidney Lumet (La parola ai giurati, 1957) e sempre ricorrendo a pertinenti esemplificazioni, il libro smonta la meccanica giustizialista oggi trionfante. Eccone gli ingranaggi: l’irrilevanza dei numeri sui tassi di criminalità, soppiantati dalla c.d. realtà percepita. La correlata diffidenza verso scienza e competenza, sospettate di combutta e cospirazionismo. Lo smisurato incremento di reati e pene. La centralità della vittima nel discorso pubblico, alibi ideale per una politica law&order. Il giustizialismo televisivo espressione di un «populismo sputtanante, che anticipa sullo schermo il dibattimento e la sentenza» a mo’ di pena preventiva. L’esposizione politico-mediatica di pubblici ministeri e il loro ruolo di influencer «determinanti nella definizione dell’agenda e nell’individuazione delle sue soluzioni penali».

L’innalzamento a nemico pubblico di qualsiasi soggettività marginale (stranieri in testa), nel nome di una lotta al degrado solo cosmetica e simbolica. Qui il lettore si ferma a riflettere. Tra gli estremi della verità e della menzogna, il populismo si nutre dunque di una categoria intermedia, il verosimile, frutto di un approccio viscerale alla realtà. Per quanto accreditata – a destra e a sinistra – si tratta di un abbaglio cognitivo: se smentita da cifre ufficiali, infatti, la percezione di un qualsiasi fenomeno non è un dato naturale, ma una costruzione sociale deliberata. «Sfila dalla realtà i fatti: quel che rimane è storytelling» (direbbe, alla sua maniera, Alessandro Baricco).

5. Più di altre forze politiche, a incarnare lo spirito del tempo è il M5S, di cui il libro offre letture originali. Privi di tradizione e di visione (se non quella onirica e distopica di Casaleggio senior), di precursori (Rousseau, per loro, è solo un marchio) e di modelli, i grillini vivono in un eterno presente («Immediatismo», è la categoria coniata da Manconi e Graziani). In questo vuoto pneumatico di cultura politica, s’innesta un agire che è più un agìto, mosso da pulsioni quali l’invidia sociale, il rancore da frustrazione, la volontà di rivalsa. La loro, infatti, è l’«ideologia della tabula rasa» che vuole azzerare la democrazia liberale con una rivoluzione livellatrice e tecnocratica. Livellatrice nel fine, perché persegue non un’emancipazione collettiva, ma un egualitarismo pauperistico al ribasso. Tecnocratica nei mezzi, perché sostituisce la piattaforma digitale all’agorà parlamentare e delle manifestazioni politiche.

Una post-modernità, quella del M5S, che tuttavia cede al più arcaico e reazionario criterio di legittimazione interna: «il fattore ereditario, il principio dinastico e il vincolo familiare». Accade così che, nella loro catena di comando, al “padre” succeda il “figlio”, legittimo (Davide Casaleggio) o putativo (Luigi Di Maio, già capo politico per investitura del fondatore Beppe Grillo). Un tipico esempio di italico familismo amorale. Totale è la sintonia del M5S con la «perversione giustizialista del populismo»: rimozione della rule of law, tifo da stadio per l’azione penale, richiesta di una giustizia rapida, severa, sommaria a sedare l’allarme sociale. Sta soprattutto qui la ragione del loro successo nel mercato della politica: aver risposto a una legittima domanda di giustizia sociale con un’offerta di giustizia penale. Confondendo così l’una nell’altra, come anche «la politica con la morale, la morale con la giustizia, la giustizia con la politica».

6. La pars construens del libro è laddove al populismo penale si contrappone l’alternativa di un garantismo a tutto tondo, quale «sistema di controlli imposti a tutti i poteri, non solo a quello giudiziario, e a garanzia dell’insieme dei diritti fondamentali, non solo di quelli minacciati dall’intervento penale». Da lettore, ho apprezzato la scelta di sottoporre teoria e prassi del garantismo a impegnativi crash-test. È proprio là dove la fune si tende allo spasimo – nella difesa dell’indifendibile – che se ne può saggiare la resistenza: dal me-too in salsa italiana (il caso Brizzi, il bunga-bunga) alle misure di prevenzione (il daspo, le confische antimafia); dalla prostituzione femminile all’antiproibizionismo; dai reati di odio al negazionismo; dal 41-bis all’ergastolo ostativo; dalle scelte di fine vita alle mutilazioni genitali femminili; dal finalismo rieducativo della pena agli istituti di clemenza; dalla decadenza parlamentare di Berlusconi all’autorizzazione a procedere contro Salvini.

7. È vero, da noi il garantismo langue, nonostante un pugno di irriducibili. Ed hanno ragione Manconi e Graziani – nel capitolo conclusivo – a denunciare la scarsa mobilitazione a tutela delle garanzie individuali, di cui si è perso il ricordo. Eppure, qualcosa si è mosso in questi anni, e d’importante. L’abolizione costituzionale della pena di morte. L’adesione alla Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il messaggio alle camere del Presidente Napolitano. L’introduzione, comunque, del reato di tortura. L’istituzione del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti. Le sentenze delle Corti, costituzionale ed europea, in tema di sovraffollamento carcerario e di ergastolo ostativo.

È stato l’uso del diritto (lex) in funzione dei diritti (iura) a renderle possibili: la scoperta, cioè, che nello Stato costituzionale esistono strumenti alternativi alla rappresentanza politica su cui fare leva, per iscrivere temi e ottenere risultati altrimenti irraggiungibili: il ricorso a Strasburgo, la quaestio alla Consulta, le organizzazioni sovranazionali a tutela dei diritti, l’interlocuzione con il Quirinale, le inchieste parlamentari, la disobbedienza civile. In attesa di tempi migliori, passa da qui la risposta terapeutica all’infelicità del garantismo italiano.