Ci sono volute le parole di Francesco Boccia per mettere un freno alle fibrillazioni che hanno caratterizzato lo scorso fine settimana in casa Pd. «Gaetano Manfredi è un nome autorevolissimo, spero che sia disponibile con l’unità delle forze di centrosinistra e Movimento 5 Stelle», ha detto ieri il responsabile dem degli enti locali a proposito della candidatura dell’ex rettore della Federico II a sindaco di Napoli.

L’endorsement di Boccia è arrivato al termine di ore concitate in cui Pd e M5S sembravano aver trovato l’accordo per le candidature di Nicola Zingaretti e Roberto Fico a sindaco rispettivamente di Roma e di Napoli; dopodiché l’intervento dell’ex premier Giuseppe Conte, il timore di una scissione tra i grillino e lo spettro della caduta della giunta regionale del Lazio hanno stravolto lo scenario politico. E così, dopo le esternazioni di Boccia e al netto dei distinguo di forze politiche che invocano l’apertura delle consultazioni o il ricorso alle primarie (prima fra tutte Italia Viva con Graziella Pagano), Manfredi sarà il candidato del cosiddetto “campo progressista” nel capoluogo campano. Il suo nome metterebbe d’accordo le varie anime di quel fronte: il Pd metropolitano, il M5S e il governatore Vincenzo De Luca, contrario alla candidatura di Fico.

La notizia è positiva perché contribuisce a rendere più chiaro un quadro politico finora caratterizzato da estrema confusione, parzialmente mitigata dall’annunciata discesa in campo di Alessandra Clemente, Antonio Bassolino e Sergio D’Angelo. Non solo: il fatto che la coalizione di centrosinistra sia orientata – in modo apparentemente definitivo – a candidare Manfredi segna un passo avanti nel superamento del vuoto di dibattito che Napoli sta scontando. Non si può fare a meno di notare, però, come la candidatura dell’ex rettore arrivi con un clamoroso ritardo. Alle comunali mancano cinque mesi e nessuno dei due principali schieramenti politici si è degnato di spiegare ai napoletani come intende ricostruire una città devastata da dieci anni di demagogia.

Nei giorni scorsi, quando la sua candidatura appariva  ancora come una sorta di “piano B” rispetto a quella di Fico, Manfredi ha parlato da sindaco e lanciato un monito: «Napoli non va lasciata sola». L’ex rettore si rivolgeva, in particolare, al Governo nazionale che, dopo la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha escluso la possibilità di “spalmare” il deficit dei Comuni su un arco temporale superiore a tre anni, deve necessariamente andare in soccorso delle amministrazioni sull’orlo del default. Ora che l’esecutivo Draghi si sta muovendo in quella direzione, valutando la possibilità di rifinanziare il fondo per i Comuni in crisi o di varare una norma-ponte per consentire alle amministrazioni di approvare i bilanci entro il 31 maggio, sarebbe il caso che Manfredi facesse chiarezza su alcuni punti.

Il primo: come intende risolvere i problemi strutturali che gravano sulle finanze cittadine? Come ricostruirà il rapporto tra Palazzo San Giacomo, da una parte, e Regione e Governo, dall’altra, dopo anni di isolamento? Quale ruolo intende giocare nella realizzazione dei progetti inseriti nel Recovery Plan, sebbene sulla loro sorte nessuno abbia fatto ancora chiarezza? Da Manfredi e dai suoi avversari – incluso quello di centrodestra di cui pure si attende l’ufficializzazione – ci si aspetta un impegno forte per pianificare la città e progettarne il rilancio. E, soprattutto, per rimediare a quella “dismissione intellettuale” che Adolfo Scotto Di Luzio ha recentemente denunciato e che, se prolungata, potrebbe rivelarsi fatale per Napoli.

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.