Fabio Fazio non dovrà fare domanda per il reddito di cittadinanza. Grazie alla Rai è già ricco di suo e accrescerà notevolmente il suo conto in banca con il succulento contratto che si è assicurato con Discovery assieme a quella simpaticona di Luciana Littizzetto. Entrambi sono il classico buon partito senza bisogno di voti. Pantalone potrà dire che abbiamo già dato e senza rimpianti, né rimorsi.

Gli ululati dei giorni scorsi all’indirizzo della Rai non hanno alcuna ragion d’essere. Si è strillato alla censura. Stiamo ai fatti: se ne va con le sue gambe l’amministratore delegato Carlo Fuortes; fa altrettanto la coppia di “Che tempo che fa”. Non era più “tempo” di restare, tutto qui. Certo, c’era la determinazione quotidianamente manifestata da un centrodestra stufo di subire linciaggi a mezzo tv.

Ma lo stesso Fazio ha dovuto onestamente ammetterlo: è da quarant’anni “che sto in Rai”. Una specie di senatore a vita del servizio pubblico radiotelevisivo. Più di Pierferdinando Casini alla Camera, il doppio di Benito Mussolini, due Ventenni. Decisamente tanto. Forse troppo. A quanti strepitano per “il danno” all’azienda e all’Italia (l’incredibile Enrico Letta…) facciamo notare che sarebbe davvero poca cosa che un’azienda che campa anzitutto col canone versato dagli italiani dovesse fallire perché una trasmissione non sta più in palinsesto. E che sarà mai. Dobbiamo fare l’elenco di quanti programmi applauditi da valanghe di telespettatori hanno poi conosciuto l’oblio?

Anche Massimo Giletti era campione di ascolti, ma la Rai non esitò a farlo fuori. Ed ora che è accaduto anche a La7 sarà più facile che a rimetterci sia proprio quest’ultima che non viale Mazzini. La corazza del servizio pubblico resiste a tutto. La differenza è che allora – con Giletti – non ci fu la ridicola sommossa delle ultime ore. Non si gridò al regime, alla libertà perduta. Solo un silenzio ipocrita.

Anziché singhiozzare come vedove, quelli del Pd, che hanno lottizzato negli anni dal capo azienda fino all’ultimo usciere, dovrebbero riflettere sugli errori commessi. E magari riflettere su una frase che ci è tanto cara, trovata su un libro del “cattocomunista” Federico Scianò. L’autore, purtroppo scomparso, scrisse nel momento in cui passava dall’Avvenire alla Rai, che si era chiesto se dovesse rinunciare alle proprie idee. E la risposta fu che semplicemente doveva tener conto anche dell’esistenza di quelle altrui. Perché la ragione stessa del servizio pubblico sta proprio nella comprensione del pluralismo.

Se Fazio avesse fatto buona memoria di quella pubblicazione dedicata a “sorella tv” magari non avrebbe provocato polemiche in ogni puntata del suo programma. Invece, troppo spesso nelle trasmissioni Rai prevale uno spirito fazio-so che non fa bene al servizio pubblico, che dovrebbe rappresentare l’Italia reale rispetto a quella paludata del Palazzo.

Fazio non si è sottratto alla moda prevalente in azienda, per cui sono da santificare i Roberto Saviano come i Mimmo Lucano da Riace. Il Paese reale non li eleva a propri rappresentanti, perché è stanco di una televisione sempre più lontana dall’opinione comune. E ci sarà un motivo se ogni giovedì sera – nel derby fra televisioni private – Paolo Del Debbio stramazza al suolo con gli ascolti quel Fazio 2 che risponde al nome di Corrado Formigli su La7.

Il pluralismo non può corrispondere all’opinione di uno solo, né di un partito o di uno schieramento. Per carità, il commento del giornalista è sacro, ma semplicemente non può essere usato per nascondere la notizia. Un caso, quello di Cutro. Si è gettata la croce addosso al governo Meloni, nessuno ha mai domandato perché il governo greco non avesse fatto la sua parte per salvare quei poveri disgraziati morti in mare. Neppure Fazio, perché per lui erano più importanti le polemiche casalinghe contro la destra. Ha amicizie importanti in tutto il mondo, mai il tempo di sfogliare l’agendina sui numeri telefonici importanti ad Atene…
Auguri a chi c’è ora a viale Mazzini. Ci sarà da lavorare per riequilibrare l’azienda. Non c’è più Fazio, ne restano tanti altri peggio di lui.

Francesco Storace

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