E adesso cosa succede? Molti magistrati, sicuramente, da ieri notte hanno bisogno di qualche dose massiccia di ansiolitico per poter prendere sonno. Piero Amara, dopo aver mandato per mesi messaggi trasversali e confidando di essere diventato il super pentito – intoccabile – di tutte le malefatte togate, è stato arrestato dalla Procura di Potenza. I pm lucani, a dire il vero, hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare da tempo i colleghi di almeno tre o quattro Procure. Amara, invece, per circostanze a questo punto tutte da verificare, era sempre stato graziato e lasciato in libertà.

La doccia fredda per l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi in giro per l’Italia, è arrivata ieri mattina. Le indagini sono state condotte direttamente dal procuratore Francesco Curcio, toga progressista, il cui arrivo a Potenza, come si ricorderà, era stato alquanto travagliato. Curcio, dopo un lungo passato a Napoli, nel 2018 era stato votato all’unanimità in Plenum. A gennaio dell’anno scorso, dopo un lungo contenzioso amministrativo, il Consiglio di Stato aveva annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi. Il Consiglio superiore della magistratura, allora, rimotivava la delibera di nomina, destinando nel frattempo la dottoressa Triassi alla Procura di Nola. Già magistrato della Dna, da pm a Napoli aveva indagato sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica, condividendo la titolarità di queste inchieste con il collega Henry John Woodcock. In caso di trasferimento del procuratore di Napoli Giovanni Melillo a Milano, è uno dei candidati di punta per prenderne il posto.

Amara, secondo Curcio, grazie all’appoggio dell’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, voleva farsi accreditare come legale esterno presso l’Eni e l’Ilva. Per raggiungere lo scopo aveva predisposto alcuni esposti anonimi, dalla “palese strumentalità”, prospettando “la fantasiosa esistenza di un preteso (e in realtà inesistente) progetto criminoso, che mirava, in modo ovviamente artificioso a destabilizzare i vertici dell’Eni e in particolare a determinare la sostituzione dell’amministratore delegato Descalzi che in quel momento era invece indagato dall’autorità giudiziaria di Milano”. L’avvocato siciliano si spendeva per “una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta, in favore di Capristo, su membri del Csm” insieme al poliziotto Filippo Paradiso, distaccato presso la Presidenza del Consiglio. Capristo, fino al 2016, era stato procuratore di Trani. Tale attività veniva svolta su membri del Csm, conosciuti “direttamente o indirettamente” e veniva svolta pure su “soggetti ritenuti in grado di influire su questi ultimi, in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti d’interesse del Capristo”.

Insieme ad Amara e Paradiso sono stati arrestati l’avvocato Giacomo Ragno e Nicola Nicoletti, già consulente esterno della struttura commissariale dell’Ilva. Solo obbligo di dimora per Capristo. Sequestrata la somma di 278.000 euro nei confronti di Ragno, pari all’importo delle parcelle professionali pagate da Ilva in suo favore. Altre cinque persone sono indagate, senza misure cautelari a loro carico. Fra questi gli ex magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi. Una storia, dunque, che ricorda in fotocopia quando accaduto a Siracusa. In Sicilia il magistrato prescelto era Giancarlo Longo che, secondo le intenzioni di Amara, doveva essere poi nominato procuratore di Gela, cittadina siciliana dove l’Eni ha una delle più grandi raffinerie del Paese.

Ad Amara, circostanza molto curiosa, in questi anni nessun magistrato ha mai sequestrato un euro, essendo però evidente che le sue grandi ricchezze erano frutto di attività corruttive per aggiustare i processi. Quando il pm romano Stefano Fava aveva chiesto di arrestarlo, come raccontato nelle scorse settimane dal Riformista, il fascicolo gli era stato tolto al termine di uno scontro violentissimo con l’aggiunto Paolo Ielo e il procuratore Giuseppe Pignatone.
Nel frattempo Amara, sempre a piede libero e con il conto in banca benfornito, aveva continuato a mandare messaggi trasversali. L’ultimo in ordine di tempo era quello relativo all’esistenza della loggia super segreta “Ungheria”. Sulle sue dichiarazioni a tal proposito ai pm di Milano per mesi non sono mai state fatte indagini. Circostanza che aveva determinato la consegna dei suoi verbali da parte del pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Amara, per non farsi mancare nulla, è al centro pure dell’inchiesta della Procura del capoluogo lombardo sul cosiddetto “falso complotto Eni”: ai magistrati milanesi aveva dichiarato che il presidente del collegio che ha giudicato i vertici del colosso petrolifero accusati di corruzione internazionale era stato avvicinato dai legali di questi ultimi. Da oggi si apre un altro scenario. Nessuna sorpresa intanto dall’altro fronte caldo, quello del caso Palamara. La Procura generale della Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, ha chiesto alle Sezioni Unite civili della Suprema Corte, di confermare la rimozione dell’ex leader dell’Anm dalla magistratura, così come deciso dal Csm lo scorso 9 ottobre. Per Salvi non ci sono motivi per rinviare la decisione definitiva sulla vicenda disciplinare di Palamara e nemmeno per mettere in discussione l’utilizzo delle intercettazioni del suo cellulare, infettato dal trojan come richiesto dalla difesa di Palamara, captazioni che hanno messo nei guai molti altri colleghi dell’ex presidente dell’Anm, che ambiva a fare l’Aggiunto nella capitale.