«Tra l’11 giugno 1940 e il 1 maggio 1945 a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale 2 mila civili, in 5 anni; in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morte 11.851 civili, 5 volte di più. Un riferimento numerico clamoroso. Oltre alla solidarietà che dobbiamo ai lombardi e alla consapevolezza della gravità dell’emergenza in quelle terre, dobbiamo anche sapere che stiamo vivendo una grande tragedia, non l’abbiamo ancora sconfitta».  Queste parole la ha pronunciare qualche giorno fa il commissario nazionale Arcuri per rendere evidente la gravità dell’attacco pandemico sulla società lombarda.

Che la situazione della pandemia da coronavirus in Lombardia sia gravissima è evidente, anche perché e un caso di studio a livello mondiale, ma non è necessario per colpire la fantasia dei destinatari diffondere un messaggio sbagliato che contiene errori cosi gravi da inficiare il valore stesso del messaggio. Essi derivano dal continuo tentativo delle autorità politiche e degli opinion makers di utilizzare il paragone tra le guerre mondiali e la pandemia, nella convinzione che esse costituiscano di per se una sorta di idealtipo dell’orrore, della violenza, della distruzione, tale da collocare immediatamente, senza altre mediazioni culturali, la tragedia del Covit-19 all’interno di uno spazio simbolico estremo e tragico. Ma come ci ha ricordato Sabino Cassese la pandemia non è una guerra, e quindi da quella comparazione derivano più fraintendimenti che spiegazioni, più confusione che chiarezza, anche perché il passato, al contrario di chi lo usa maldestramente, non ha nessuna autoevidenza immediata.

La guerra infatti non è più una esperienza personale per la stragrande maggioranza della popolazione – anche chi ha 80 anni era troppo piccolo tra il ‘40 e il ’45 per avere dei ricordi solidi del conflitto -, che non sa cosa siano i bombardamenti, il razionamento del cibo, lo sfollamento, il coprifuoco. Ormai di quei fatti abbiamo una conoscenza scolastica e appartengono al bagaglio di conoscenze storiche, la cui profondità e rilevo soggettivo derivano dai nostri interessi culturali, dalle memorie familiari, dai media, con una forza evocatrice direttamente proporzionale al senso che quel passato ricopre nella nostra identità soggettiva.

Arcuri, ignaro di tutto ciò e maneggiando in maniera maldestra la storia si avventura in una comparazione e già inciampa sui dati, perché mette a confronto i morti dei bombardamenti a Milano con i deceduti di Covit-19 nell’intera Lombardia; lo scopo comunicativo è evidente: fare emergere la forza distruttiva della pandemia assai superiore a quella del “benchmark” guerra mondiale. Ma se si paragonano le pere con le mele lo scopo salta anche perché se si opera sulla scala cittadina le distanze in questa triste contabilità non sono poi così forti. Ma al di la d questo errore statistico è tutta l’operazione a non avere senso.

Se paragonare guerra e pandemia ha poco senso paragonare i decessi dei bombardamenti che sono una delle tante cause di morte della II guerra mondiale con quelli totali della pandemia produce un’altra distorsione, perché a Milano in quel quinquennio, mentre 2000 cittadini morivano sotto le bombe, altre migliaia morivano per l’assenza di medicine, di assistenza ospedaliera o di cibo, altri perché vittime innocenti della violenza dei tedeschi o dei fascisti.

Inoltre La Milano di allora era una città disabitata perché soprattutto dopo i bombardamenti dell’agosto del ‘43 si era verificato lo sfollamento di massa di centinaia di migliaia di milanesi verso le campagne e in altre regioni per evitare di rimanere travolti dalla guerra. Infine non bisogna dimenticare che lo scopo dei bombardamenti non era uccidere i civili, ma distruggere i centri produttivi e le infrastrutture per colpire le capacità difensive e offensive del nemico: i morti erano un “effetto collaterale”, tragico in sé e per le dimensioni che assunse nell’ultimo biennio della guerra, dovuto alla imprecisione dei lanci.

L’unica effettiva comparazione possibile riguarda la mortalità da covid-19 non tanto con quella dovuta alla spagnola aggravata dall’intreccio tra pandemia e Grande Guerra, ma con quella delle ultime due epidemie influenzali in tempo di pace, l’Asiatica del ’57 e quella del ’68-69. Ma questo lavoro avrebbe richiesto troppo lavoro ad Arcuri che si è accontentato di una operazione a grana grossa per stupire un uditorio dal palato poco raffinato.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.