«Dobbiamo fare un grande sforzo, riportare l’economia reale, la politica industriale al centro del dibattito di politica economica». Lo ha affermato il Ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, intervenendo, pochi giorni fa, al congresso nazionale della Fim – Cisl che si è tenuto al Lingotto di Torino. Come il Ministro ha giustamente ricordato, da decenni il dibattito di politica economica – se di dibattito si può parlare – si è esaurito fondamentalmente in misure di finanza pubblica, di ragioneria, di obiettivi di bilancio, di manovre correttive. Tutto certamente importante ma, così facendo, si è smesso di ragionare di quella che è sempre stata la maggiore ricchezza del nostro Paese e cioè l’economia reale, a cominciare dalla manifattura e dall’industria.

La politica economica fino a qualche decennio fa è stata strategica nelle scelte di governo. Si studiava come intervenire e si prevedevano gli effetti dei provvedimenti sull’economia così da poter modificare l’andamento macroeconomico. Con l’avvento delle politiche neoliberiste e della globalizzazione finanziaria si è imposta l’idea che il mercato dovesse essere lasciato libero di operare in completa autonomia e lo Stato dovesse intervenire soltanto in singoli casi di difficoltà. All’improvviso arriva però la crisi finanziaria del 2008 e poi la pandemia, il crollo dell’economia reale, livelli di disoccupazione prima impensabili e tutto cambia. «Ora – come dice il Ministro – dopo due anni di pandemia che ha prodotto, sotto l’aspetto economico e sociale, l’effetto di una guerra, è arrivato il conflitto in Ucraina con conseguenze, adesso e in prospettiva, devastanti» e così «il mondo che ci aspetta va verso la deglobalizzazione e tornerà a essere importante avere determinate produzioni, almeno in Europa, essere autonomi. In questa fase partirà un mercato delle rilocalizzazioni».

Dopo un periodo in cui la globalizzazione sembrava scontata e inesorabile, è incontestabile che si va verso un periodo di deglobalizzazione che vuol dire passaggio dalle delocalizzazioni a un mercato di rilocalizzazioni nel quale economia reale, realtà locali, comunità territoriali rappresenteranno le carte vincenti per la nuova sfida. L’Italia può fare la sua parte grazie a un patrimonio produttivo riconosciuto e invidiato in tutto il mondo. Un tessuto fatto da una fitta rete di Piccole e Medie Imprese quelle che, a partire dal dopoguerra, hanno fatto del nostro Paese una delle maggiori potenze industriali. Ora, se davvero si è convinti di ridare la centralità a una nuova economia reale basata su una crescita sostenibile, solidale e inclusiva, è il momento di investire e rilanciare quella rete partendo dall’accettazione del carattere estremamente fragile del modello di sviluppo che abbiamo rincorso fino a ieri.

Questo nuovo corso dell’economia, per non restare nel campo delle speranze e delle illusioni, per concretizzarsi realmente ha bisogno di un protagonista essenziale che gioca un ruolo imprescindibile: il sistema bancario. In esso, le Banche popolari e del territorio, diffuse capillarmente, sono parte integrante e decisive per il successo di una politica economica così come l’ha descritta il ministro Giorgetti. La loro presenza diffusa è necessaria per rendere rapidi, fluidi e sicuri i finanziamenti alla produzione e al commercio, proprio come è avvenuto nei momenti più duri della pandemia quando sono state decisive per la salvezza di tante aziende. Del resto sono i numeri che lo dimostrano. Nel 2021, i flussi di nuovi finanziamenti delle Popolari alle PMI hanno superato i 36 miliardi di euro e quelli per i mutui alle famiglie i 15 miliardi. Malgrado le note difficoltà dell’economia, oltre 105 milioni di euro degli utili della categoria (il 2% del valore aggiunto prodotto) sono stati destinati ad attività di beneficenza, interventi in campo sanitario, culturale, di pubblica utilità e di interesse sociale.

In quasi 400 comuni le Popolari sono l’unico riferimento creditizio e, nelle regioni meridionali, le uniche che mantengono la sede legale oltre che una presenza capillare con quasi 1.000 sportelli e che contribuiscono a ridurre la frattura, ancora profonda, tra Nord e Sud. Tutto ciò è possibile per l’alto grado di conoscenza e di integrazione nei territori, dal legame delle Popolari con le proprie comunità che si rinnova ogni giorno e una volta l’anno anche attraverso le assemblee che coinvolgono migliaia di soci chiamati a partecipare in maniera non formale per definire i percorsi necessari. Sostenibilità, partecipazione, territorialità: le Banche popolari sono pronte per una nuova stagione di politica economica.