Ospite di Piazza Pulita su LA 7, l’ormai ex magistrato Piercamillo Davigo ha detto una cosa che non può non colpire: se solo avessi avuto un cenno (dal presidente del Csm Mattarella, si intende) circa l’orientamento del Comitato di Presidenza in senso contrario alla mia permanenza, mi sarei immediatamente dimesso. Dico subito che credo senza riserve a quanto dice il dott. Davigo, del quale avverso con tutte le forze le idee sulla giurisdizione e sul processo penale, ma la cui esemplare integrità morale davvero nessuno può mettere in dubbio. Ed anzi confesso di aver provato empatia verso il servitore dello Stato, di stampo antico, che dice: avrei obbedito, perché non risparmiarmi questa umiliazione?

Senonché, sono portato a pensare che nessun cenno gli è stato fatto per la semplice ragione che fino all’ultimo si è cercato di salvare, più che il soldato Davigo, l’assetto politico del Csm che aveva appena giudicato e rimosso dalla magistratura, con molta fretta, il dott. Luca Palamara. Se e fino a qual punto il dott. Davigo avesse fatto affidamento proprio su questa inerzia, lo sa solo lui; ma la partita si è giocata su questo tavolo, non certo su quello della controversia tecnico-giuridica, come si vorrebbe farci credere; e nemmeno sul piano, come dire, personale nei confronti del magistrato simbolo della stagione di Mani Pulite.

Ma quando poi, con malcelata amarezza, egli lamenta che quel silenzio ingannevole dei vertici del Csm lo abbia ingenerosamente esposto ad un danno di immagine, come di un magistrato “attaccato alla poltrona”, qui il Nostro scivola nella retorica populistica un po’ troppo facile, ancorché a lui assai congeniale. Qui il dott. Davigo (che peraltro avrebbe avviato, stando a notizie di stampa, altra controversia per veder retroattivamente rivalutata la sua sconfitta nella corsa a Primo Presidente della Corte) deve prendersela solo con sé stesso. Il quadro dei principi era ed è chiarissimo, il Consiglio di Stato si era già pronunciato esattamente in termini quando egli ha deciso di ingaggiare questa battaglia.

Ed anzi, egli aveva avuto altre due eccellenti occasioni per buttare dignitosamente la spugna: il giudizio negativo della Commissione che di norma lui stesso presiedeva; ed il parere drasticamente negativo della Avvocatura dello Stato (incredibilmente secretato: il che la dice lunga su quanto il Consiglio o gran parte di esso stesse cercando di sostenerlo). Ha voluto tenere il punto, non ha che da recriminare con sé stesso. Ma una riflessione a parte merita il voto finale espresso dal Csm, che conferma una volta di più la deriva davvero incontrollabile della crisi di autorevolezza e credibilità che attanaglia la magistratura italiana ed il suo vertice istituzionale. Ancora una volta, su una questione del tutto tecnica, si è votato per schieramenti, e per dosimetrie correntizie. Il tema era se il magistrato in pensione potesse rimanere in carica: cosa c’entra qui la corrente di appartenenza? Ogni commento è superfluo.

E merita invece plauso il voto libero ed “imprevisto” del dott. Nino di Matteo. Per Travaglio -che incarna l’idea platonica della faziosità più incontinente e spregiudicata- si tratta di un voto “inspiegabile”; per molti, anche all’interno della stessa magistratura, sarebbe stata addirittura una ritorsione contro il silenzio di Davigo sulla nota vicenda della mancata nomina al Dap. Che si debba essere proprio noi avvocati a presumere, almeno presumere, un gesto di onestà intellettuale e di libertà morale da parte di un magistrato pur assai lontano da noi, la dice lunga -per parafrasare Gadda– su quanto sia grave “quel pasticciaccio brutto di piazza Indipendenza”.

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