Spazio di riscatto sociale? Macché. Tutt’al più luogo di espiazione e di sofferenza, se non addirittura di morte. Ecco a che cosa si è ridotto il carcere in Campania. Sono i numeri a restituire una fotografia impietosa degli istituti di pena: dall’inizio dell’anno, nella nostra regione, si sono già suicidati tre detenuti. L’ultimo due giorni fa a Bellizzi Irpino, dove a togliersi la vita è stato un pugliese, padre di tre figli, arrestato a novembre scorso e trasferito da Foggia nell’istituto di pena avellinese il primo aprile scorso. Una tragedia che si somma a quella del 16enne che si è tolto la vita in una comunità del Casertano e a quella del detenuto che ha compiuto il gesto estremo tre giorni dopo essere entrato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Tre morti in meno di quattro mesi, dunque, a conferma di un trend in netta crescita. Nel 2020 i suicidi dietro le sbarre sono stati nove a fronte dei cinque registrati nel 2019. Allo stesso modo, stando a quanto si legge nella relazione annuale presentata dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, sono aumentati gli atti di autolesionismo aumentati (1.232 casi in un anno), gli scioperi della fame (1.072) e il rifiuto dell’assistenza sanitaria (398 casi) come forma di protesta, con conseguente aumento dei provvedimenti disciplinari che portano alla perdita di benefici e, di conseguenza, alimentano il sovraffollamento.

A prescindere dalle motivazioni di certi gesti, i dati dimostrano come il carcere continui a esasperare, straziare e persino a uccidere anziché a rieducare. Soprattutto in un periodo in cui il distanziamento sociale imposto dall’emergenza sanitaria ha ridotto i contatti tra detenuti e familiari, comunicazione, ascolto e presenza di figure sociali. Manca qualcosa? Probabilmente sì, almeno secondo Ciambriello: «Bisogna implementare progetti rieducativi e umanizzanti, distribuendoli nell’arco della giornata, con l’obiettivo di combattere l’isolamento. E poi servono più figure sociali di accompagnamento come psicologi, psichiatri, pedagogisti ed educatori, il che significa più attività di inclusione, lavoro, studio e formazione». Fino a qualche tempo fa, d’altra parte, nei 15 penitenziari della Campania erano in servizio 17 psicologi e 23 psichiatri provenienti dalle Asl ai quali si aggiungevano 43 esperti psicologi inquadrati nel personale dell’amministrazione penitenziaria. E medici e infermieri? I primi non vanno oltre le 108 unità e i secondi non superano le 189.

Poco a fronte di una popolazione carceraria che oscilla tra le 6.300 e le 6.500 persone e nella quale non mancano casi di detenuti affetti da disturbi psichici o da altre patologie. Poco per gestire il trauma della carcerazione che spesso esplode in chi fa ingresso in un istituto di reclusione e che si manifesta con sintomi che vanno dall’ipertensione all’astenia. Così i penitenziari campani – ma il discorso non è diverso per quelli del resto d’Italia – si trasformano in cimiteri. Alla politica tutto ciò interessa? Nemmeno per sogno. Il tema dell’invivibilità del carcere e del reinserimento sociale dei condannati sono del tutto estranei all’agenda dei rappresentanti istituzionali. Stesso discorso per molti organi di informazione. Un’indifferenza comprensibile, in un contesto politico e sociale impregnato di giustizialismo, ma altrettanto inaccettabile per chi fa dei diritti il proprio credo.