I giochi delle candidature sono chiusi e a Napoli si è aperta la campagna elettorale. L’attenzione è concentrata sul debito comunale che, tuttavia, non è l’unico nodo da sciogliere. Pesa l’assenza di una prospettiva di sviluppo. La situazione attuale è simile a quella che la città ha vissuto dopo le grandi tragedie della sua storia più recente. La pandemia lascerà le stesse ferite che hanno lasciato il colera nel 1883 e nel 1973, la seconda guerra mondiale, il terremoto del 1980 e la delegittimazione della classe dirigente avvenuta con la Tangentopoli nel 1993. Dopo queste tragedie Napoli ha saputo risollevarsi attingendo alle sue migliori energie: la città umiliata, divisa e indifferente si è fatta popolo, è riuscita a esprimere un sentimento condiviso di rivalsa e di rinascita, ha trovato i suoi leader e i suoi progetti. Oggi questo sentimento popolare appare ancora incerto e confuso.

In quest’ultimo decennio l’economia cittadina è cresciuta per effetto di un consistente flusso turistico che ha valorizzato il patrimonio urbanistico, non senza alcune punte speculative, e ha creato le condizioni di una economia di rendita. Il destino di Napoli, però, non può essere fatto solo il turismo, messo in crisi dalla pandemia, né di rendite urbane o di capitalismo patrimoniale che si basa su una società immobile e classista. Il modello di sviluppo dev’essere diversificato e, in questa diversificazione, non si può rinunciare a una componente industriale. Lo hanno compreso bene gli operai della Whirlpool che, nella sacrosanta lotta per la difesa del lavoro, hanno posto anche il problema del futuro industriale della città. Fu Francesco Saverio Nitti, all’inizio del Novecento, dopo un lungo periodo di malgoverno caratterizzato da collusioni tra politica e camorra, che si fece promotore di una Napoli industriale. Fu proprio Nitti l’artefice della legge speciale per Napoli del 1904 che portò alla nascita del grande insediamento di Bagnoli e dell’area industriale della periferia orientale. Così, per molti decenni, Napoli non fu solo un «grande albergo e un grande museo», ma un’attiva città industriale e un presidio della democrazia sulle braccia laboriose di una matura classe operaia.

I ruderi di quella che fu una delle più grandi e avanzate acciaierie d’Europa restano come monumenti muti a ricordarci che non esiste futuro di sviluppo se non esiste attività manifatturiera. Lo dicono le leggi economiche, attribuendo al manifatturiero la più grande capacità di creare valore aggiunto e occupazione, e l’esperienza dei Paesi più sviluppati. Nitti osservava che «le città industriali non si improvvisano», ma sono il frutto di elevata formazione scolastica, clima sociale favorevole, diffusa mentalità di progresso. Sono fattori che riguardano le scelte della classe dirigente, dunque di natura politica, gli stessi che hanno permesso a popoli nati in condizioni ambientali estreme di raggiungere alti livelli di sviluppo. È la volontà politica che ha strappato le terre al mare in Olanda per costruire opifici, così come ha determinato lo sviluppo impetuoso delle città cinesi strappate alla miseria della natura avara.

Questa volontà manca a Napoli. Eppure esistono gli strumenti. È possibile ristabilire un clima sociale favorevole combattendo la criminalità organizzata e aumentando le opportunità di formazione per i più giovani. È questa la precondizione per attirare investimenti utilizzando la leva degli incentivi e degli sgravi fiscali. Il denaro corre dove ha maggiori opportunità di profitto. Ma tutto ciò presuppone una città che si riconosca come popolo e trovi una classe dirigente capace di promuovere un progetto di sviluppo condiviso.