Il procuratore aveva sentito con le sue orecchie...
Cesa non è mafioso, ennesimo flop di Gratteri: 5 mesi di gogna per nulla
Vien voglia di mollare due ceffoni, a chi aveva detto che Lorenzo Cesa era un mafioso. E chissà se il ministro Di Maio prima o poi chiederà scusa anche a lui. Il nome del segretario dell’Udc nelle richieste di rinvio a giudizio dell’inchiesta “Basso profilo” non c’è. È stato stralciato, il che pare preludere a una richiesta di archiviazione da parte della stessa Procura di Nicola Gratteri che lo aveva accusato di trattare con la mafia e lo aveva tenuto in graticola per cinque mesi. Così vanno le vicende politico-giudiziarie in Italia, e in particolare in Calabria.
Il 21 gennaio si muovono trecento poliziotti e dieci elicotteri nonostante l’operazione si chiami “Basso profilo”, a indicare in modo esplicito che non si stanno catturando importanti boss mafiosi, ma personaggi marginali, quando non addirittura del tutto estranei a qualunque associazione riferibile alla ‘ndrangheta. Il procuratore Gratteri, nella consueta conferenza stampa, lo aveva detto chiaro. «L’indagine di questa mattina è la sintesi di quello che diciamo ormai da decenni: la ‘ndrangheta spara meno però corrompe e ha sempre più rapporti nel mondo dell’imprenditoria e nel mondo della politica». Il carniere però era semivuoto. E nessun quotidiano di tiratura nazionale avrebbe dedicato neppure uno sguardo distratto a un blitz definito dagli stessi autori come operazione di basso rango mafioso, se una manina astuta non avesse inserito nell’elenco degli indagati un personaggio politico importante.
Che cosa c’entra Lorenzo Cesa con la mafia calabrese e con l’inchiesta “Basso profilo”? Assolutamente niente. Così, mentre lui stesso (ma lo si può capire) recitava la giaculatoria della “fiducia nella magistratura”, e i suoi amici e colleghi (meno giustificabili e con la sola eccezione di Gianfranco Rotondi) suggerivano che lui avrebbe dimostrato la propria innocenza come fosse suo compito, ecco che cosa scriveva Il Riformista: «Ma è sicuro al cento per cento che ne uscirà completamente scagionato». Non perché noi siamo più bravi, ma perché era evidente che tutta quanta la sceneggiata di elicotteri e uomini in armi (mancavano solo i cani lupo) sarebbe servita a poco se non ci fosse stato anche lo specchietto per le allodole acchiappa titoli di giornali e aperture tv. Il nome famoso. Più che famoso in realtà, forse addirittura fondamentale, in quel momento storico e politico. Perché Cesa, con la sua piccola pattuglia dei tre senatori Paola Binetti, Antonio Saccone e Antonio De Poli, si era ritrovato in quei giorni di crisi all’improvviso al centro della scena politica come possibile sostegno al progetto del governo Conte-ter dopo l’abbandono di Renzi e di Italia Viva.
L’inchiesta del procuratore Gratteri era piombata come una valanga proprio in quel momento. I tempi si erano da subito fatti convulsi: Cesa indignato si era immediatamente dimesso dalla segreteria del suo partito, i due simpatici grillini Di Maio e Di Battista si erano affrettati a dire che con gli indagati non si trattava. Intanto Gratteri rilasciava a tamburo battente due interviste in cui si mostrava attentissimo ai tempi della politica. Spiegava al Corriere e a Repubblica che lui si era preoccupato di non far cadere gli arresti in mezzo alle elezioni calabresi, che però erano state spostate da gennaio ad aprile, e che comunque lui aveva sentito “con le sue orecchie” Cesa dire in televisione che non avrebbe appoggiato il governo. Neppure un mezzo tentativo di tenersi fuori, di dire che l’obbligatorietà dell’azione penale, eccetera. Lui aveva sentito con le proprie orecchie, quindi poteva tranquillamente sguinzagliare gli elicotteri e anche dare la patente di mafioso al segretario di un partito senza timore di interferire con il quadro politico. Povero Cesa! Solo coloro cui è capitato qualcosa di analogo sanno che cosa vuol dire alzarsi al mattino sapendo che c’è qualcuno che ritiene tu abbia a che fare con i boss. E sappiamo anche che poi nessuno ti chiederà scusa.
Ma non sarebbe giusto che anche noi dedicassimo la nostra attenzione solo a una persona di quel blitz di gennaio. Il numero due della parte politica dell’inchiesta si chiama Francesco Talarico, è (speriamo ancora, non si sa mai l’avessero rimosso, in questi tempi di grillismo acuto) il responsabile regionale calabrese dell’Udc. Sicuramente svolgeva quel ruolo politico alla fine del 2017, quando sta coltivando la speranza di andare in Parlamento alle successive elezioni politiche del 2018 come candidato nel collegio di Reggio Calabria (resterà fuori per 1.500 voti). Si dà da fare nella campagna elettorale con il maggior numero possibile di contatti con persone che possano aiutarlo nella raccolta dei voti, come fanno tutti. C’è a dargli una mano Tommaso Brutto, consigliere comunale da vent’anni a Catanzaro, con suo figlio Saverio, cui Talarico promette un ruolo di assistente parlamentare in caso di elezione. Inutile fare commenti sulla procedura, si tratta della normalità di qualunque campagna elettorale di qualunque partito.
Naturalmente c’è anche l’imprenditore, Antonio Gallo, detto il “principino”, descritto dagli stessi magistrati come uno che non è un boss e neanche inserito in qualche ‘ndrina. Ma come uno che conosce tutti, che traffica un po’ con tutti, che ha amicizie un po’ di tutti i tipi, anche quelle “così-così”, fino a quelle più compromettenti. E qui entra in scena Lorenzo Cesa, perché i quattro –Talarico, i due Brutto e Gallo- un bel giorno partono dalla Calabria per Roma e vanno a incontrarlo in un ristorante. Delle conversazioni a tavola non c’è nessuna registrazione perché il segretario dell’Udc all’epoca era parlamentare europeo. Lo dirà lo stesso procuratore Gratteri con rammarico, in un’intervista del giorno dopo. Il resto sono solo deduzioni, certamente secondo l’accusa avranno parlato di gare e appalti, anche se non risulta. Anzi, si scoprirà poi che le ambizioni di Gallo si sarebbero fermate alla speranza di un incarico in qualche organismo di vigilanza che gli potesse garantire qualche migliaia di euro al mese.
Una bella cricca di mafiosi, non c’è che dire. Uno che vuole andare in Parlamento, l’altro che promuove il figlio come assistente del deputato e l’altro ancora che pietisce qualche euro in un organismo di controllo. Del resto non è che lo stesso gip si fosse affannato a riempire le carceri di mafiosi. Si era limitato a 13 provvedimenti di custodia in carcere e per tutti gli altri, a partire da Talarico, si era fermato ai domiciliari, poi trasformati in obbligo di dimora. E in seguito lo stesso tribunale del riesame aveva fatto piazza pulita in un bel po’ di aggravanti mafiose, pur mantenendo le imputazioni di corruzione elettorale.
Intanto Lorenzo Cesa uscirà dalla scena politico-giudiziaria, immaginiamo. Ai giornali, salvo qualche piccolissima eccezione, non pare importare niente. Il Conte-ter infine non si è fatto e magari il progetto sarebbe affondato lo stesso. Ma i cinque mesi forse peggiori della sua vita sicuramente nessuno li restituirà a Cesa. In fondo, che cosa vuoi che sia? Il procuratore aveva sentito con le sue orecchie.
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