Le riprese del covo di Matteo Messina Denaro, le storie di orologi, auto, amanti, cyclette, parrucche che riempiono a pieni mani le pagine dei giornali e i reportage televisivi restituiscono un’immagine deformata della mafia siciliana e del suo più importante capo. Oppure no. Ora, senza voler apparire pedanti, è che, sia pure sottovoce, non si può proprio distogliere l’impressione di trovarsi al cospetto di un piccolo borghese, di un italiano medio con i suoi soliti vizi e le sue logore litanie piccolo consumistiche.

Quelle immagini collocano, infatti, MMD in una mediocre terra di mezzo tra l’opulenza sfrontata di Escobar o del Chapo e l’apparente vita miserrima di Salvatore Riina o di Bernardo Provenzano con il suo pane e formaggio in uno sperduto casolare della campagna siciliana. Una terra di mezzo desolata, grigia, scialba senza i fasti consentiti da un illimitato potere economico e senza neppure il fascino seducente del capo che solitariamente condivide la vita grama dei propri soldati. Come tutto questo possa stare insieme alla descrizione di patrimoni miliardari, di un potentato finanziario immenso e dilagante è questione che si vedrà. C’è chi sostiene da anni che il famoso “fatturato” delle mafie sia ampiamente, ma proprio ampiamente, sovrastimato e che si tratti di elaborazioni a tavolino, prive di qualsivoglia concreto riscontro giudiziario, fatte per costruire qualche carriera e giustificare qualche apparato e qualche sovvenzione.

Ma visto che stavolta tutto sembra andato per il verso giusto si può essere sicuri che dell’impero economico di MMD si troveranno almeno le tracce, se non le prove, ben al di là di qualche scontrino del supermercato o di ricevuta del ristorante. C’è da fare i conti, anche su questo versante, con il principio di realtà che dovrebbe essere il caposaldo di ogni analisi della questione criminale in Italia; ma è evidente che agguerrite enclave remano contro in forza di una visione ampiamente ideologica del problema. Le immagini dettagliate e minuziose del rifugio di MMD distribuite dal Ros dei Carabinieri – molto probabilmente consigliate anche dalla necessità di evitare le penose dietrologie che hanno sfiancato la reputazione di quel reparto dopo quanto successo per il covo di Riina – sono state, per così dire, convalidate dal durissimo discorso del procuratore di Palermo all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Come Brenno dopo la resa dei romani, il procuratore De Lucia ha lanciato la sua spada sulla bilancia di qualche esegeta antimafioso sibilando parole che a quel “vae victis” tanto somigliano. Parlava il magistrato a una schiera di vinti in cui ci sono non solo i mafiosi di cosa nostra, ma nelle cui fila si intravedono gli epigoni di una dietrologia negazionista che voleva avvelenare la cattura del boss. La fine di quella latitanza, infatti, ha sbriciolato l’ultimo presidio di quanti descrivono la storia della Repubblica come il dipanarsi di una vituperata collusione dello Stato con la mafia. Collusione delle Istituzioni, si badi bene, e non della politica o dell’imprenditoria che con i clan ci sono sempre andate a braccetto e che si dilettano oggi in danze i cui volteggi ignoriamo quasi del tutto.

L’operazione di trasparenza e di verità che i magistrati di Palermo e i Carabinieri stanno meticolosamente realizzando con le notizie che, giustamente, sono date alla pubblica opinione sta prosciugando l’acquitrino melmoso in cui allignavano teorie complottiste, ricostruzioni ipotetiche, suggestioni alogiche. E’ una svolta importante e, ci auguriamo tutti, decisiva a 30 anni dalla stagione del sangue terrorista. Il corpo di Matteo Messina Denaro, la sua stessa postura disvelano le radici sociali, psicologiche, antropologiche della mafiosità sopravvissuta agli ergastoli che appare vulnerabile, malata, con le pasticche di Viagra e le parrucche da donna in armadio. Insomma, nulla che non possa a lungo andare essere irriso e scrutato con una certa amara ironia dalla maggioranza degli italiani in un processo di identificazione che è la porta della commiserazione.

Inutile citare la memorabile descrizione di Adolf Eichmann e rimandare alla sua banale personalità. Da questo punto di vista, fondamentale nell’era della comunicazione, Matteo Messina Denaro – e non Salvatore Riina – ha distrutto cosa nostra traducendone visivamente la mediocrità umana nei tratti di un borghese piccolo, piccolo. Certo feroce e sanguinario, ma insomma nessun immagine da appendere alla parete di qualche altro covo, neanche fosse il mitico Padrino o il grande The Joker che il boss aveva circondato con frasi motivazionali reperite nei soliti siti, un po’ da sfigati, su internet: «C’è sempre una vita d’uscita, ma se non la trovi sfonda tutto». Nel supercarcere de L’Aquila si è raccomandato subito per buone cure oncologiche, come suo diritto e nostro dovere.