Eccolo lì, il Capo di Cosa Nostra. Una belva sanguinaria o un uomo sconfitto dalla malattia? Non si dovrebbe mai fare festa quando si cattura un prigioniero. Soprattutto quando il Capo della mafia di tutti i tempi non appare come il capomafia assetato di sangue che tutti immaginano, ma come un uomo malato di tumore, pallido e rassegnato. I carabinieri del Ros che ieri mattina hanno arrestato dopo trent’anni di latitanza Matteo Messina Denaro ci hanno almeno risparmiato la vergogna di quella scorribanda con clamore di clacson e mitragliette fuori dai finestrini con cui i “cugini” della squadra mobile di Palermo avevano esaltato l’arresto di Giovanni Brusca nel 1996.

Le immagini di ieri mattina sono il trionfo della sobrietà. Colui che le sentenze di mafia hanno bollato come il boss dei boss, il successore di Totò Riina nella politica delle stragi dei corleonesi, esce senza manette dalla clinica “La Maddalena” dove era sottoposto a un ciclo di chemioterapia, poi viene sospinto quasi con dolcezza da una carabiniere in divisa all’interno di un’auto in cui poi entrano anche due agenti armati. Niente spintonamenti, niente mano sulle testa in quel gesto violento che normalmente si usa nello spingere dentro il veicolo il prigioniero, il catturato. Di Messina Denaro si notano subito non solo i perpetui occhiali scuri a coprire i problemi di salute degli occhi, ma soprattutto quel berretto che potrebbe nascondere la caduta dei capelli conseguente alle cure oncologiche. Quel che oggi possiamo chiederci è chi è l’uomo che è stato accompagnato con garbo in caserma e poi con un elicottero in località segreta. Viste le condizioni di salute, l’approdo potrebbe essere il reparto speciale per detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano. Quello in cui morì Bernardo Provenzano.

Chi è oggi Matteo Messina Denaro? È il capo della mafia o è un malato grave con metastasi al fegato? E il suo arresto è il primo vero successo della premier che si è precipitata a congratularsi in Sicilia e del ministro Piantedosi che si era già vantato di essere l’uomo che un giorno avrebbe posto fine alla latitanza del grande ricercato? O invece, come già qualcuno sospetta, c’è stata una mini-trattativa per la consegna, più o meno spontanea, di un uomo malato e stanco di essere inseguito per fatti di trent’anni prima, organizzati ed eseguiti da una Cosa Nostra dei corleonesi che non esiste più? Certo, le condanne ci sono, e gli ergastoli anche. Matteo Messina Denaro porta stampato sul corpo il titolo “onorifico” di essere stato il capo della mafia. Non importa che quella stagione delle stragi sia finita e che quei boss che furono i capi e i maestri dell’ultimo latitante siano ormai morti.

Può sembrare un paradosso e anche creare scandalo il ricordarlo, ma l’uomo che ieri abbiamo visto pallido e rassegnato quasi tra le braccia delle forze dell’ordine, non è mai stato presente a un processo in cui era imputato. È stato sempre giudicato e condannato in contumacia, secondo un sistema tutto italiano, che non esiste in altri ordinamenti europei, soprattutto per i reati più gravi. Un po’ come era successo a Cesare Battisti, condannato per fatti di terrorismo, che non era affatto innocente, ma che aveva denunciato l’anomalia del nostro Paese, dove domina tuttora la sub-cultura del “pentitismo” che toglie laicità al processo. E favorisce gravissime distorsioni, come quella creata dalla costruzione a tavolino del falso collaboratore Enzo Scarantino, che ha consentito il fatto che una decina di innocenti sia stata in carcere per un decennio.

Del personaggio Matteo Messina Denaro conosciamo solo quello che è scritto nelle motivazioni delle sentenze che lo hanno condannato per le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992 e anche quelle del 1993 di Milano, Firenze e Roma. Cioè dell’anno in cui sarebbe iniziata la sua latitanza. Ma parlare di questo singolare Capo della mafia è possibile solo per ipotesi e abbondante uso del condizionale. In che veste ha partecipato alle uccisioni di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini delle due scorte? E a quella “trattativa” tra lo Stato e la mafia che non è mai esistita ma in cui lui avrebbe svolto un ruolo di grande rilievo? Non si sa, nessuno l’ha visto da nessuna parte, quindi si suppone lui sia stato quello che ha schiacciato i pulsanti del decisore, del mandante, in ogni situazione. Non ha mai avuto un difensore di fiducia, Matteo Messina Denaro. Del resto, a che cosa gli sarebbe servito? Essendo già stato battezzato come Capo di Cosa Nostra, ed essendo possibile nel nostro ordinamento, processare e condannare gli imputati in contumacia, e senza che vengano osservate le regole del contraddittorio in aula del giusto processo, le condanne erano inevitabilmente già scritte. Senza nulla togliere alla professionalità dei vari difensori d’ufficio, e senza bollare come sbagliate le sentenze di condanna. Ma un conto è ritenere che le varie corti d’assise abbiano condannato un colpevole, altro conto è che in quelle aule sia stata fatta giustizia.

Prendiamo le ultime sentenze per le stragi che inevitabilmente sono diventate anche le più simboliche, quelle del 1992 in cui hanno perso la vita Falcone e Borsellino. I simboli della ferocia dei corleonesi ma anche dei clamorosi errori dei pubblici ministeri dell’antimafia, quelli che hanno costruito e poi sposato le chiacchiere del finto pentito Scarantino. I fallimenti di diverse generazioni di magistrati che hanno tenuto prigioniera nelle aule di giustizia la realtà dei fatti per trent’anni. E non parliamo del flop più clamoroso, quello sul processo “Trattativa”. Il ruolo di Matteo Messina Denaro lo si deduce dalle motivazioni delle sentenze. Prendiamo ad esempio quella della corte d’assise di Caltanissetta che lo ha condannato all’ergastolo. Il boss di Castelvetrano «condivise in pieno l’oggetto e la portata del piano criminale di Riina di attacco allo Stato e di destabilizzazione delle sue istituzioni, allo scopo, da un canto, di colpire i nemici storici, gli inaffidabili e i traditori di Cosa Nostra, dall’altro canto di entrare in contatto con nuovi referenti con cui trattare per giungere a un nuovo equilibrio».

È impressionante, e anche imbarazzante, doversi ancorare a quel verbo “condivise” per trovare la prova di una colpevolezza. Così come le argomentazioni che lo collocano al centro di quella “Trattativa” che non ci fu. Cioè quell’accordo tra i corleonesi e importanti apparati dello Stato, quello per cui le stragi sarebbero cessate in cambio di qualche derubricazione dei regimi 41 bis cui erano sottoposti i boss mafiosi in carcere. «Anche a non voler credere -scrivono i giudici- che Messina Denaro fosse a conoscenza di tutti gli snodi e i particolari della Trattativa, il boss trapanese fu presente proprio alla riunione avvenuta a Mazara del Vallo subito dopo la strage di via D’Amelio, riunione dove Riina comunicò che le richieste contenute nel Papello erano state ritenute esose». E via dicendo.

Da oggi si aspetta qualche momento di verità. Matteo Messina Denaro si comporterà come Giovanni Brusca e farà il “pentito”? E che cosa potrà mai avere di nuovo da raccontare, che non abbia già riferito la schiera di collaboratori che le inchieste di mafia ormai contengono al proprio interno? E se invece resterà in silenzio, sarà perché rannicchiato nella malattia o perché avrà ancora la voglia di essere l’unico irriducibile trent’anni dopo come un giapponese a guerra finita?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.