Ci stiamo avvicinando al Primo Governo Draghi e i mass-media fanno fatica a dare in pasto all’opinione pubblica un ritratto invadente di questo economista tanto autorevole quanto sobrio e riservato. Per capire quali siano i reconditi pensieri del Presidente incaricato, si scava così su chi siano stati i suoi maestri, e tra di essi spicca la figura di Federico Caffè.

Nato a Pescara nel 1914, scomparso nel nulla nell’aprile del 1987, Caffè – bisogna ricordarlo per i più giovani – è stato docente di Politica economica e finanziaria all’Università di Roma “La Sapienza” dal 1960 in poi. Anche lui uomo estremamente riservato, si è dedicato con passione e costanza all’insegnamento. Solamente alla Sapienza, nel corso di un quarto di secolo, si laurearono con lui più di mille studenti, ed era quello il suo principale orgoglio professionale. Ho l’onore di essere stato uno degli ultimi di questa lunga lista.

Di questi studenti, Caffè continuava a seguire le tracce, spesso a loro insaputa, per molti anni a seguire, tanto che teneva un quaderno su cui aggiungeva piccole annotazioni relative ai loro traguardi professionali. Ogni tanto si divertiva a far una sintesi sulle professioni dei suoi allievi. Convocava qualcuno dei suoi più stretti collaboratori e snocciolava i dati: tra i miei laureati, diceva, tanti lavorano presso le banche, questi sono diventati giornalisti, questi altri lavorano nelle imprese e questi, e qui allargava un bel sorriso sornione, sono diventati professori universitari!
È un vero peccato che non abbia mai saputo che ben due dei suoi allievi – Mario Draghi e Ignazio Visco – siano diventati Governatori della Banca d’Italia, e il primo di loro poi addirittura promosso a Presidente della Banca Centrale Europea.

Ne sarebbe stato orgoglioso perché Caffè ha avuto con la Banca d’Italia un rapporto privilegiato, anche senza risparmiare spesso critiche che, per quanto deferenti, erano ugualmente pungenti. Funzionario di Banca sin dalla fine degli anni Trenta, Caffè ebbe un ruolo autorevole nello sviluppo del prestigioso Servizio Studi. Contribuì in maniera decisiva a trasformare il quarto piano della Banca in via Nazionale, dove si trovava il Servizio Studi – quella che i funzionari del piano nobile chiamavano ironicamente “la piccionaia” – la palestra dove si formarono alcuni dei più validi economisti italiani, spesso costretti loro malgrado a scendere dall’Olimpo dell’alta teoria per andare a ricoprire ruoli di responsabilità nel governo, nelle istituzioni, nelle banche, nelle imprese. Caffè lasciò poi la Banca d’Italia per dedicarsi a tempo pieno alla sua grande passione, l’insegnamento, per quanto mantenne negli anni Sessanta un ruolo di rilievo presso l’Ente Einaudi, un istituto fondato dalla Banca d’Italia e il cui scopo era promuovere la ricerca economica. Proprio all’Ente Einaudi, Caffè ebbe un ruolo che prediligeva, ossia selezionare giovani talenti cui dare borse di studio per il perfezionamento all’estero.

A differenza di quelli provenienti da altre scuole, quella di Caffè è distinta dall’eterogeneità: tra i suoi studenti, troviamo chi è a favore dell’integrazione dell’euro e chi vi è contrario, alcuni che difendono a spada tratta le imprese pubbliche ed altri invece inclini alle privatizzazioni, studiosi che hanno sostenuto la scala mobile dei salari ed altri che si sono adoperati per abolirla, paladini del Welfare State e sostenitori della riduzione della spesa pubblica. Era a tutti chiaro da che parte stava Caffè, giacché non solo non faceva mistero delle sue idee, ma le sosteneva continuamente sui giornali e sulle riviste, spesso – come ad esempio quando suggerì di abolire la borsa – suscitando scalpore per quanto ardite fossero le sue tesi.

Il pensiero di Caffè si adeguava al cambiamento dei tempi e, piuttosto che rimanere arroccato su un dogma, era ben lieto di capire come determinati problemi potessero essere affrontati e risolti in un ben determinato contesto storico. Ma alcune sue posizioni di politica economica furono costanti: per quanto sempre vigile nei confronti del clientelismo se non addirittura della corruzione che dominava nelle imprese a partecipazione statale, era a favore delle imprese pubbliche e intendeva riformarle per renderle più aderenti all’interesse generale piuttosto che abbandonarle al mercato.

Difendeva appassionatamente le ragioni dei più deboli, e per quanto fosse ben consapevole delle degenerazioni del sistema di assistenza, quando si parlava di eccessiva generosità nel concedere le pensioni di invalidità, rammentava quanto fossero state dure per la sua generazione le condizioni di lavoro in agricoltura. Nei paesi, diceva, si poteva riconoscere ad occhio nudo chi aveva lavorato nei campi, perché dopo una certa età non riusciva più a conservare la posizione eretta. Rispettava profondamente i lavoratori e riteneva che nulla avrebbe dato dignità ai giovani quanto avere opportunità professionali.

Il Federico Caffè anti-europeista
Caffè era invece scettico, è opportuno ricordarlo, nei confronti di una acritica integrazione economica, anche a livello europeo. Temeva, specialmente per il nostro Paese, contraddistinto da un livello di occupazione tradizionalmente più basso di quello dei nostri principali partner commerciali, che entrare in una unione doganale e, ancor di più, una unione monetaria, potesse impedire politiche economiche nazionali volte ad espandere la domanda. Caffè, insomma, non era un europeista. In questa posizione, negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, si ritrovava vicino alle posizioni di molti laburisti inglesi.

Voglio ricordare un aneddoto personale. Era l’inverno del 1979, e tornavo da Londra dove, per imparare l’inglese, ero stato ospite di un amico di mio padre, il deputato labourista Stuart Holland. La posta elettronica era ben lungi dall’essere tra noi, e le poste italiane difettavano – a differenza di quelle di Sua Maestà Britannica – di affidabilità. Fu così che Stuart mi affidò una scatola contente il dattiloscritto del suo ultimo libro, intitolato provocatoriamente Uncommon Market. Capital, Class and Power in the European Community. Tornato a Roma, lo portai a Via di Villa Sacchetti a Vito Laterza, che aveva già pubblicato due libri di Holland. In quegli anni, l’influente consigliere per la saggistica economica della casa editrice Laterza era proprio Caffè (e suo figlio Pepe, il figlio primogenito di Vito, era uno dei suoi brillanti studenti).

Il dattiloscritto rimbalzò quindi a Caffè, che era a conoscenza degli antefatti, visto che da Londra ci eravamo scritti spesso. A Caffè, la tesi del libro piacque assai, e scrisse un rapporto per la Laterza (che sarà senz’altro custodito nei loro archivi), in cui raccomandava di pubblicarlo, addirittura con un titolo provocatorio del tipo “Anti-apologia del Mercato Comune Europeo”. Il libro, poi, non fu tradotto, ma lo scetticismo di Caffè rimase. Per quanto fossi solo uno studente del terzo anno, già allora ritenevo che i vantaggi dell’integrazione europea fossero assai maggiori dell’isolamento, per gli aspetti politici ancor prima che per quelli economici. Ma i ragionamenti critici di Caffè e altri aiutavano assai a capire che allargare il mercato mette i più deboli in una posizione di vulnerabilità, per cui si rendono necessarie politiche economiche vigorose per difenderli.

Sono state benemerite le politiche per la coesione economica e sociale, applicate dalla Commissione Europea sin dagli albori, ma sono riuscite solo parzialmente a controbilanciare le spinte centripete del mercato unico. La moneta europea, poi, avrebbe tolto ai Paesi periferici, Italia inclusa, il loro principale strumento di politica economica: l’arma della svalutazione. E chi meglio di Caffè, che aveva passato decenni alla Banca d’Italia, quando ancora vigevano i cambi fissi, poteva sapere quanto vitale fosse una politica monetaria espansiva per aumentare la domanda?

La capacità maieutica
Ciò che ha reso Federico Caffè un maestro eccezionale è dovuto ad una sua capacità umana: la voglia di ascoltare e capire le idee altrui. Ogni volta che uno studente, per quanto inesperto, bussava alla sua porta, la prima cosa che Federico desiderava era capire le sue idee, le sue aspirazioni, le sue intuizioni, per quanto confuse e pre-scientifiche potessero essere. Caffè non era affatto un intellettuale remissivo: ci teneva ad affermare le sue idee e anche a diffonderle, tanto che quando scriveva un articolo, ne faceva svariate fotocopie e le distribuiva ai suoi studenti, ai suoi assistenti, ai suoi colleghi. Eppure, non aveva alcuna intenzione di imporre la propria visione su quella dei suoi studenti.

Il che produceva un effetto miracoloso sui giovani che, dopo ciascun incontro con lui, si sentivano lusingati ma anche responsabilizzati: «Se le mie opinioni hanno un così elevato valore per un professore così autorevole – ci dicevamo dentro di noi – non posso certo deludere le aspettative». E da qui scaturiva la voglia di approfondire le nostre confuse intuizioni, di ricercare nella letteratura scientifica pezze d’appoggio o tesi da confutare, di giustificare l’uso di metodi quantitativi che lui magari sminuiva. Alla fine di questo percorso, il lavoro di ogni studente migliorava progressivamente in un dialogo costante, a volte reale, altre volte immaginario, in cui i giovani rileggevano quello che avevano scritto pensando alla reazione che poteva suscitare in Caffè.

Caffè trovava il tempo per vagliare ogni manoscritto che riceveva dai suoi studenti e colleghi, fornendo osservazioni costruttive ma anche critiche. Sarebbe interessante raccogliere le note che scriveva a margine – sempre a matita, in segno di rispetto – sulle bozze di tesi dei suoi studenti. In queste osservazioni si ritrova il suo spirito più autentico: preziosi suggerimenti per ampliare le ricerche, spesso con consigli bibliografici, citazioni letterarie o musicali, bonarie prese in giro quando uno studente scriveva qualcosa di eccessivamente pomposo o apodittico.

Di destra o di sinistra?
Caffè era senz’altro un economista di sinistra. Iniziò la sua vita pubblica nel 1945 come capo di gabinetto di Meuccio Ruini al Ministero per la Ricostruzione. Aveva avuto la possibilità di conoscere Ruini perché compagno di università di suo figlio Carlo, uomo affabile e garbato che finì per insegnare Economia del lavoro in Facoltà. Caffè ottenne quel posto quando aveva solo 31 anni, mentre Meuccio Ruini, insieme a Ivanoe Bonomi, era stato fondatore di un partito “Democrazia del lavoro” che si ispirava al movimento labourista inglese, e che ebbe vita assai breve. Dopo quella esperienza, Caffè ottenne una borsa di studio di perfezionamento per la London School of Economics, che lo temprò intellettualmente e nell’anima.

Vide all’opera le politiche sociali del governo labourista di Clement Attlee, lo sviluppo dell’assistenza sociale, la ricostruzione di case popolari nelle aree che erano state bombardate dalla Luftwaffe, patì, come tutti gli inglesi, le conseguenze del razionamento di alimenti, e apprezzò lo spirito civico di quel popolo. John Maynard Keynes era morto da poco, Lord Beveridge – un altro dei fondatori del Welfare britannico – si era trasferito da Londra a Oxford, ma il loro spirito era ancora vivido. A questi ideali della sua gioventù, Caffè rimase attaccato, con un miscuglio di duttilità e tenacia, per tutta la sua vita, e li ha trasmessi ai suoi allievi e a chi ha avuto la fortuna di essergli accanto.

Che cosa hanno in comune gli allievi di Caffè
Scorro nella mente ancora una volta la lunga lista degli allievi di Caffè. Ci vedo, prima di tutto, due governatori della Banca d’Italia, ma insieme a loro anche altri funzionari di grande capacità e successo. Ci vedo molti economisti che, in epoche e in partiti diversi, hanno dovuto lasciare l’accademia per ricoprire incarichi governativi e, fuori d’Italia, presso il Fondo monetario, la Banca Mondiale, l’Ocse, la Commissione Europea, la Banca centrale europea.

Numerosissimi i docenti universitari, due dei quali sono diventati Presidenti dell’Istat. Non so quanti siano i giornalisti economici, ma non mi sono bastate le dita delle mani per contarli. Qualcuno è finito a svolgere incarichi prestigiosi in banche e in imprese. Ci sono tra loro anche personaggi un po’ bizzarri, ma difficilmente qualcuno in malafede.

Che cosa hanno in comune? Non mi risulta che nessuno di loro – ripeto, nessuno di loro – abbia mai ricevuto un avviso di garanzia, in un paese in cui gli avvisi di garanzia sono distribuiti generosamente a destra e a manca. Sarà senz’altro un caso, una singolare eccezione. Ma forse non è un caso: chi si è avvicinato a Federico Caffè, avvertiva agire una forte calamita, quella dell’integrità morale, che anche dopo la sua scomparsa non ci ha mai abbandonato.