In due giorni Putin ha sconvolto il quadro della guerra in Ucraina. Ha indetto un referendum nel Donbass, per ottenere qualche legittimazione popolare all’annessione; e poi ha annunciato la mobilitazione militare della Russia per minacciare l’escalation militare in Ucraina. La Russia finora ha adoperato nella guerra solo una parte della sua forza militare. L’Ucraina ha dato tutto e difficilmente può sperare nell’aumento degli aiuti dall’Occidente, perché i paesi occidentali devono comunque rispondere ai propri elettorati e dunque devono rispettare dei limiti. Al di là delle considerazioni strategiche, geopolitiche e militari.

Cosa rappresenti questa doppia mossa di Putin è difficile da capire. I mass media occidentali non aiutano, su questo piano, perché sono tutti, praticamente, embedded, cioè organici alla guerra. Difficile trovare analisi oggettive. Partiamo dalla mossa della Cina, che ha reagito immediatamente al discorso di Putin invocando iniziative di pace. È un gesto ostile o invece è una mossa concordata? Di sicuro il vertice di Samarcanda ha reso più solidi e non ha indebolito i rapporti tra Cina e Russia. Anche perché li ha ancorati a un disegno di sviluppo economico e di contrasto all’Occidente che difficilmente può svanire in poche ore. Se il commento della Cina alle mosse di Putin non fosse in qualche modo concordato, sarebbe un vero e proprio atto di rottura. Clamoroso. Ma non è affatto probabile che la Cina abbia intenzione di rompere con la Russia nel momento nel quale si sta costruendo la nuova alleanza di Samarcanda. E allora?

Se l’uscita dei cinesi è stata concordata, vuol dire che anche Putin è interessato ad aprire una via d’uscita all’avventura ucraina. Cioè è interessato ad avviare un percorso di pace e non, invece, a tenere aperto il conflitto trasformandolo in conflitto di lunga durata. Non è una novità, in politica e in guerra, quella di usare una esagerazione delle minacce per avviare una iniziativa moderata.
Se le cose stanno così, ora tocca alla politica entrare in campo. Io dico: alla politica. Non alla diplomazia. La diplomazia servirà tra un po’, se le cose prendono una piega positiva. Ora tocca alla politica. Si tratta di creare le condizioni nelle quali i due contendenti, e cioè la Russia e l’Ucraina, possano trovare un accordo dignitoso per entrambi. La politica ha questo compito. Se la politica dice: no, niente vie d’uscita, l’unica via d’uscita è la sconfitta della Russia e la fine di Putin… se dice così la pace è una chimera. Probabilmente esiste una parte – ma, credo, solo una parte – dell’establishment americano, che pensa che la strada giusta sia questa. Insistere con la guerra, ottenere nuovi successi militari, forzare le sanzioni, anche a costo di strangolare l’Europa, con l’obiettivo di rovesciare Putin. E a quel punto trattare con una Russia debolissima e sottometterla.

Può darsi che abbiano ragione. Che sia una via realistica. Il prezzo però sarà altissimo. Non solo in termini di vite umane ma di futuro per milioni di persone. Se la linea è quella della guerra di lunga durata bisognerà dare per scontata la devastazione dell’Ucraina e una crisi economica sconvolgente in Europa, dalla quale, probabilmente, l’Europa si potrà riprendere solo dopo anni o decenni. Assistendo impotente al proprio declino. Il prezzo è giusto? L’Europa ha la forza per dire di no, cioè per opporsi alle posizioni oltranziste di una parte dell’amministrazione Biden, e cambiare il corso della battaglia politica aprendo prospettive di intesa? La domanda è solo qui. Se non si muove l’Europa e non si dissocia dalla linea oltranzista, non c’è nessuna speranza di pace. Si muoverà? La risposta non la conosco. L’Europa non ha attualmente una leadership in grado di guidare una operazione politica così complicata e di staccarsi dalla dipendenza dagli Usa. Però i fatti sono fatti. E forse i fatti spingeranno l’Europa sulla strada della ragionevolezza. Diciamo sulla via di Kissinger. Per me la speranza è solo questa.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.