I senatori mandano a processo il collega ed ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Dopo una giornata di interventi e discussioni, è arrivato il verdetto. Per la maggioranza (149 voti) il leader della Lega non ha tutelato “un preminente interesse pubblico” impedendo lo sbarco di 140 migranti tenuti al largo nel mare di Agrigento per due settimane nell’agosto 2019 mentre chiedeva pieni poteri al Papeete Beach ma i poteri glieli stava levando il suo allora socio di maggioranza Di Maio e il tuttora premier Conte. Sono stati 141 i contrari. E in questo numero c’è dentro anche qualcuno della maggioranza.

Una discussione senza troppi brividi né emozioni. Si è già detto tutto su questa storia anche perché è la terza volta che il Senato s’interroga se l’ex ministro dell’Interno ha sequestrato o meno i migranti: sulla nave Diciotti ha vinto (non è andato a processo), sulla Gregoretti ha perso (il processo inizia il 3 ottobre) e sulla Open Arms anche. Era tutto già scritto anche questa volta. Tranne la decisione di Italia Viva che in giunta aveva deciso di non decidere e in aula con 18 voti può fare la differenza. Matteo Renzi ha parlato chiaro: «Noi non ci dobbiamo chiedere se Salvini ha o meno sequestrato i migranti. La domanda a cui quest’aula deve rispondere è se riteniamo che abbia o meno agito in qualità di ministro dell’Interno nell’interesse superiore e preminente quale può essere la sicurezza dello Stato. Ecco, secondo noi non è questo il caso». Il senatore leader di Italia viva ha interrogato l’aula sul fatto che probabilmente non solo Salvini ma tutto il governo ha avuto responsabilità in quella vicenda.

Teniamola da parte questa ipotesi. Tornerà spesso. Giulia Bongiorno, l’avvocato penalista che Salvini volle riportare in Parlamento nel 2018, in aula ha ricordato come «nell’ottobre 2019, col governo giallo rosso appena insediato, la nave Ocean Viking è rimasta in mare con i suo carico di migranti. Nessuno ne parla. Ma si tratta della stessa storia. Il Viminale all’epoca non li fece sbarcare perché c’era la campagna elettorale in Umbria… cos’è stato? Sequestro di persona a scopo di campagna elettorale?». I decreti Salvini, che nei fatti chiusero i porti alle navi delle Ong, sono ancora in vigore. Magari non applicati, ma in vigore. Quando si dice l’ipocrisia. Chiuso il dossier Open arms, governo e Parlamento chiudono anche tre giorni di passione. Ne escono salvi ma non sani. La maggioranza ha incassato 170 voti nel voto thriller sullo scostamento di bilancio. Un ottimo risultato, ottenuto da sola (le opposizioni si sono astenute) insperato finché non è comparso sul tabellone elettronico. Merito, va detto, di una decina di ex senatori 5 Stelle nel frattempo passati al misto.

Il problema è quello che è successo subito dopo, nella notte dei lunghi coltelli in cui sono state rinnovate 28 presidenze di altrettante commissioni. E qui la maggioranza è uscita a pezzi. Il Movimento 5 stelle è imploso e in un paio d’ore è successo tutto quello che hanno sempre rinnegato come i vecchi riti di quella politica che dovevano svuotare come una scatoletta di tonno: hanno concordato a tavolino numeri e nomi delle commissioni (14 a M5s, 9 al Pd, 4 a Iv, una a Leu), non hanno rispettato i patti; capita la mala parata i vertici del Movimento hanno sostituito in blocco dieci deputati in Commissione Finanze alla Camera nel timore della loro disobbedienza. Non contenti, sempre i vertici 5 Stelle hanno deciso di tracciare le schede in modo di avere la controprova dei voti. Alla fine le cose sono andate a posto ma sul campo sono rimasti feriti gravi. Ne ha fatto le spese l’ex presidente del Senato Piero Grasso dato sicuro alla presidenza della Commissione Giustizia del Senato. Era l’unica commissione assegnata a Leu rimasta ora a mani vuote. Il voto è segreto, dunque non ci sono certezze. Ma gli indizi sui traditori (almeno due) confluiscono in casa 5 Stelle. Tra cui un ex come Michele Giarrusso.

La beffa è che la rivolta interna grillina ha mantenuto alla presidenza ben due leghisti: Ostellari alla Giustizia e Vallardi all’Agricoltura dove doveva andare un senatore grillino. La rivolta si è replicata alla Camera. E sempre in Commissione Giustizia dove il grillino Perantoni si è visto superato da Vitiello Catello, un ex 5 Stelle passato a Italia viva. Intuita la trappola – dare la colpa ai renziani di tanto sconquasso – la capogruppo Boschi ha chiesto le immediate dimissioni di Catiello. E il grillino Perantoni ha potuto così occupare l’incarico assegnato. Questo ennesimo scherzetto, dopo i due al Senato, ha provocato ritardi, riunioni, grida nei corridoi, “cosa state facendo” e lo stop all’elezione del presidente della Commissione Finanze assegnato al renziano Luigi Marattin che non gode però delle simpatie dei 5 Stelle. Vito Crimi, il capo politico del Movimento, ha convocato subito il capogruppo Crippa e ha ordinato di sostituire dieci deputati in Commissione Finanze per evitare scherzi. Avvenuto il cambio di truppe, solo con la mattina si è potuto completare il quadro delle Presidenze con Marattin nel posto assegnato.

Come si è arrivati a questo? La piccola truffa sul Mes, infilato in quattro righe della Risoluzione votata mercoledì sul superdeficit, ha sicuramente contribuito. La firma era quella del capogruppo M5s Perilli e quando la truppa ha capito era troppo tardi. Da mesi però si trascina il malcontento verso i vertici, Crimi e i capigruppo, accusati di non tutelare gli interessi del Movimento. Ieri è stata la giornata delle lettere e dei post con le accuse in chiaro. Intendiamoci bene: nessuno di loro ha mai messo a rischio la maggioranza, la legislatura, il proprio posto. Alla fine è stata una protesta senza costi aggiuntivi. Ma se la maggioranza è salva, il Movimento è a pezzi.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.