C’è chi negli scorsi giorni su quotidiani nazionali si è chiesto dove fossero finite le femministe occidentali e italiane sulla crisi in Afghanistan. A dire il vero, l’associazionismo femminista, femminile e non, si è mobilitato fin dai primi minuti del precipitare della situazione a Kabul.

Questo prodigarsi è avvenuto in particolare nelle ultime 72 ore, attraverso frenetiche telefonate, informazioni di Ong sul campo in Afghanistan, raccolta di testimonianze di chi è coinvolto in prima persona o ha amiche o amici, colleghe e colleghi nella capitale afghana. Quello delle associazioni non è mai un agitarsi inutile. Al senso di impotenza e anche una certa vergogna per la fine indecorosa fatta dalla missione delle forze europee e occidentali in Afghanistan, le donne hanno cercato di porre rimedio con un battage impressionante, dando subito la propria disponibilità all’accoglienza dei rifugiati e con una lettera aperta, accorata e concreta rivolta alle istituzioni italiane ed europee.

Tra i primi a rispondere la Farnesina, in particolare con il Sottosegretario Benedetto Della Vedova, che da tempo segue la questione femminile afghana e che ha impiegato poche ore a incontrare una folta delegazione in rappresentanza di oltre 80 associazioni di donne e terzo settore, tra cui reti come Donne per la salvezza, Le Contemporanee, l’Asvis (alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) , Fuori Quota, Soroptimist International Italia, Rete per la parità, Casa Internazionale delle Donne Roma, Associazione Orlando Bologna, Differenza Donna, Pangea, Be Free e molte altre.

Ad oggi ci sono problemi molto concreti da risolvere, che sono stati fatti presenti dalle organizzazioni al sottosegretario e ad alcuni alti funzionari del ministero degli esteri presenti. Dalle liste per evacuazione incomplete di persone afghane che hanno collaborato con le forze occidentali, alle donne e bambini che non riescono a raggiungere l’aeroporto di Kabul unico punto di partenza dell’intero Paese, ormai controllato dai talebani. Mentre la riunione era in corso, da agenzie nazionali e internazionali, arrivavano notizie di razzie di bambine nelle case afghane come bottino di guerra per le milizie talebane, dettagli agghiaccianti che si univano a testimonianze dirette di posti di blocco talebani ormai ovunque nel paese e di una comunità Lgbtq afghana ormai terrorizzata, letteralmente nascosta nelle fogne di Kabul.

Un quadro terribile che ha motivato ancor più le attiviste a mobilitarsi concretamente per incoraggiare le istituzioni italiane ad aprire corridoi umanitari il prima possibile compatibilmente con la complessa situazione sul campo. Nell’analisi offerta dalle associazioni è emersa la necessità di dettagliare precisamente il numero di persone migranti che il nostro paese ritiene di poter accogliere, come già fatto da Gran Bretagna e Canada, le modalità per ricevere i migranti, bloccando nel contempo i rimpatri o le ricollocazioni delle persone afghane già nel nostro Paese.
Ma è il richiamo al senso di responsabilità europeo ad essere citato più volte e ripreso in molti interventi. Nessuna si attende che stavolta siano paesi come Francia e Germania a fare i primi passi per l’accoglienza, nazioni troppo vicine a scadenze elettorali e con leadership in via di aggiornamento. La richiesta da questo punto di vista è stata esplicita e verrà ribadita in ogni occasione istituzionale utile: sia l’Italia apripista nell’accoglienza, andando oltre le diatribe politiche che caratterizzano il tema migrazioni da sempre.

Nessuna persona sana di mente riporrebbe fiducia in un’unica azione di sostegno ai paesi di prima accoglienza dei rifugiati afghani, tutte nazioni con una scarsa tutela dei diritti fondamentali. I fallimentari tentativi libici e turchi, sono stati su questo una lezione sufficiente. Gli interventi delle rappresentanti associative si sono concentrate sulla necessità di arrivare rapidamente a soluzioni concrete, sulla valutazione dell’opportunità di creare un fondo ad hoc su cui dirottare eventuali raccolte di denaro da destinare a progetti di cooperazione, sviluppo, formazione e accoglienza nel nostro Paese e in Afghanistan, di cui le istituzioni, insieme alle organizzazioni più attive, si facciano garanti e parte attiva. Un richiamo fondamentale ha riguardato la messa in salvo delle attiviste e delle femministe che si sono spese in questi anni a Kabul e in altri territori del paese mediorientale, come azione di tutela delle esperienze virtuose per la crescita, la cooperazione e lo sviluppo della popolazione e del Paese. Un tesoretto da salvaguardare per il futuro del Paese e un segno tangibile di riconoscenza.