L’altra sera, nel corso di una delle tante trasmissioni dedicate alla “Tagentopoli d’Europa”, una nota parlamentare leghista, Susanna Ceccardi, mostrava il suo sdegno particolare perché le presunte malversazioni (presunte lo diciamo noi: la leghista non si concedeva a certe cautele) sarebbero servite “a finanziare le moschee”. Sull’assunto, par di capire, che finanziare le moschee sia moralmente riprovevole, quando non proprio illecito.

Ora, il problema non è tanto che all’esponente politica leghista sfugga un simile sproposito: il problema è che esso è temibilmente condiviso, è il frutto di una temperie tutt’altro che isolata, è il congruo risultato di un violento pregiudizio xenofobo e razzista per cui, appunto, la costruzione o il finanziamento di una moschea qui da noi rappresenterebbero, come ha detto quella campionessa di nazionalismo confessionale, altrettante “interferenze”. A chi la pensa in questo modo non serve domandare come reagirebbe se un’iniziativa statunitense o francese o spagnola, sostenuta da qualche miliardario cattolico di quei Paesi, si proponesse di finanziare una diocesi in terra italica: c’è da credere che non si farebbe questione di “interferenze”, e anzi che quella prebenda sarebbe benvenuta assai quale opera di manutenzione e invigorimento della nostra radice cristiana.

C’è invece bisogno di domandarsi quale concetto abbiano certuni (in realtà molti) della libertà religiosa e del rispetto dell’altrui impostazione culturale, se vien naturale anche solo immaginare che la costruzione o il finanziamento di una moschea stiano al rango di una specie di delitto. Si vorrebbe capire: dove deve pregare, questa gente? Negli scantinati? Sfugge a questi sprovveduti che il tenore civile e democratico di una società non è garantito dall’imposizione dei “propri” simboli e dalla denegazione di quelli altrui, ma esattamente dall’ordinamento opposto: e cioè dalla possibilità che tutti i simboli, tutte le religioni, tutti i luoghi di culto siano ammessi e disponibili, proprio affinché nessuno di essi si imponga esclusivamente sugli altri. La sottovalutata questione relativa al crocifisso nelle scuole e negli uffici pubblici rinvia allo stesso principio.

Abbiamo infatti speranza che gli stranieri da noi abbiano rispetto per le nostre leggi e per i nostri principi democratici a patto che lo Stato laico non ostenti e non imponga loro simboli di altro tipo, simboli religiosi che non sono i loro; mentre se questo facciamo, se questo crediamo di poter loro imporre perché “è la nostra cultura”, allora quelli, e tanto più quanto più crescerà il loro numero, si sentiranno intitolati a reclamare che sui muri dello Stato laico, dello Stato di tutti, dello Stato retto dalla legge uguale per tutti, non dai “valori” dell’uno o dell’altro, siano apposti anche i segni della loro tradizione.

Non è dunque limitando il numero delle moschee, né insorgendo perché esse sono finanziate, che si preservano le ragioni di civiltà e sicurezza del nostro Paese. E’ semmai il contrario. E’ semmai vero che dovrebbe essere chiara per tutti una regola diversa, quella secondo cui lo Stato laico riconosce e tutela il diritto di esistere delle moschee come delle chiese: senza identificarsi in queste né in quelle, e sul presupposto che esse non si azzardino a pretendere che lo Stato laico vi si identifichi. E’ semmai vero, dunque, che con più moschee ci sarebbe più democrazia. Ed è per un’altra sorta di intolleranza razzista che non lo si capisce.