La sua è una lezione di alta politica che spazia sulle grandi sfide che forze che si rifanno ad una idea di progresso non possono non affrontare. In cattedra sale Sergio Fabbrini, professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la LUISS Guido Carli, tra gli studiosi dei sistemi politici e istituzionali più autorevoli e affermati a livello internazionale. E’ Recurrent Visiting Professor di Comparative and International Politics presso la University of California di Berkeley.

Professor Fabbrini, scrive Piero Sansonetti riflettendo sul Qatargate e la reazione della sinistra: “Il giustizialismo la esalta. Sente che è il suo terreno. Sui grandi problemi della società non ha nulla da dire. Aborre le modernità. Ma così è finita”. Lei come la vede?
Penso che questa vicenda del Qatargate sia per molti aspetti un non problema, che andrebbe affrontato, almeno per quanto mi riguarda, dal punto di vista sistematico e non da quello più strettamente politico. Quello che è avvenuto è un’operazione di corruzione da parte di organizzazioni, lobby esterne al processo di visibilità e pubblicità che il Parlamento europeo ha introdotto e questo tipo di azioni di corruzione rappresentano una fisiologia del processo rappresentativo. Il fatto poi che siano uomini o donne della sinistra può colpire solamente chi coltiva ancora una idea della sinistra antropologicamente diversa dalla destra. In un editoriale per il Sole24Ore, citavo James Madison che nel suo The Federalist scrive che se gli uomini fossero angeli non avremmo dovuto inventare la scienza del governo. Abbiamo dovuto inventare questa scienza finché gli uomini non si comportino da diavoli. Capisco che chi viene da una certa tradizione politica pensi di essere portatore di questo modello di superiorità antropologica e ci rimanga male. Ma dal punto di vista sistemico analitico quello che connota il cosiddetto Qatargate avviene con regolarità in democrazie consolidate come quella americana. Il Congresso americano ha registrati, sono dati pubblici, 12.096 lobbisti che impegnano una spesa di circa tre miliardi di dollari nel corso del 2022. Il punto è come li controlli. Il problema della democrazia è sempre un problema istituzionale, di regole. La democrazia non è un regime perfetto ma è un regime perfettibile. È quello che ti consente di rimediare agli errori, non quello che non li produce.

Il Pd come sta affrontando questo “scandalo”?
Vedo un vizio ricorrente: quello di una visione metapolitica, quasi apocalittica. Propria di chi, secondo me, non ha mai fatto i conti culturalmente con il liberalismo che ha in sé la visione della limitatezza della forma politica ma anche della capacità di rimediare a quella limitatezza. Fino a quanto la sinistra non esce da questa visione missionaristica, quasi evangelica, del paradiso in terra, è difficile che faccia i conti in modo laico con queste vicende. Ciò che farei è rendere più cogenti le regole del Parlamento europeo, già abbastanza significative. Cercherei di sottoporre a visibilità e alla pubblicità le organizzazioni non governative. Quella di Panzieri, ad esempio, non era registrata. E poi se ci sono dei cialtroni o dei malfattori li manderei via. Punto e basta. Facendogli pagare quello che la legge li obbligherà a pagare nel rispetto, però, della dignità delle persone. Questa è una cosa basilare che cozza con quella visione missionaristica che pensa che tutti siano degli angeli e poi è sufficiente un comportamento non da angelo perché tutti siano considerati dei diavoli. Il liberalismo è realista, ed è innervato dalla convinzione, direi di più, dall’ideale della perfettibilità, del fato che tu puoi rimediare agli errori.

Allargando l’orizzonte valutativo. Cosa la colpisce, in negativo, del dibattito a sinistra?
Il fatto che il punto di partenza di questo dibattito non ha a che fare con i problemi del Paese e del rapporto di queste grandi questioni irrisolte all’interno dell’Europa. Un dibattito sul futuro della sinistra non può non partire da un modello di crescita che una forza politica propone. Il nostro è un Paese che non cresce da vent’anni. Che ha un declino demografico impressionante. Che ha un debito pubblico che è secondo in Europa dopo la Grecia e tra i più alti nel mondo. Che tipo di crescita pensi per l’Italia nei prossimi anni, così da consentire al Paese di fare i conti con i suoi problemi storici? Il più importanti dei quali è, a mio avviso, è certamente quello della diseguaglianza. Ma come puoi affrontare questo tema, o quello del divario territoriale tra nord o sud, o la diseguaglianza tra ceti sociali, se non ti poni il problema della crescita. Una forza politica che parla di redistribuzione senza essere stata protagonista della produzione, non ha legittimità. Non puoi pensare che ci sia un’area politica che parla di produzione e un’altra, partito, gruppo, che parla di redistribuzione. La legittimità a portare avanti una politica redistributiva, che per esempio aiuti le regioni del sud a crescere ai livelli di medie regioni europee oppure che riduca le disuguaglianze tra donne e uomini, tra giovani e non giovani, che migliori le condizioni di vita di questa largo mondo del precariato, una forza politica che si fa carico di questi obiettivi non può essere legittimata a realizzarli se non è stata contemporaneamente protagonista della produzione da cui derivare risorse per raggiungere quegli obiettivi. Chi non si pone il nodo della produzione e della distribuzione insieme, finisce per essere una forza parassitaria o populista.

A proposito di populismo: cosa pensa di Conte?
I 5Stelle che dicono tutto questo dobbiamo averlo gratuitamente. Ma gratuitamente può andar bene in una logica veramente parassitaria, di una forza che non ha alcun rilievo storico. La sinistra, nei suoi tempi migliori, ha avuto l’assillo del “patto dei produttori”. Questa visione l’ha persa per strada. La sinistra serve al Paese se sa affrontare il tema della crescita. Se non si pone il problema della crescita, la sinistra è socialmente inutile. E verrà sostituita da qualche altra forza. Perché in politica non esiste il vuoto. Io vedo davvero un vuoto culturale, di classi dirigenti che non capiscono che parlare di redistribuzione senza una visione politica, un progetto di crescita, è mero esercizio retorico che non attira, non conquista il grosso del Paese. Per fare una politica redistributiva devi avere con te la maggioranza del Paese. A quella maggioranza devi dire, e dimostrare nei fatti, che noi siamo contemporaneamente la forza che fa andare avanti il Paese, che lo fa crescere, altrimenti quella maggioranza non ce l’hai se non in una logica clientelare che ti condanna ad essere una sinistra clientelare che cerca di ottenere delle briciole. E intanto il Paese nel suo complesso declina, perché chi non sa porsi il problema della crescita e non si pone correttamente neanche il problema della distribuzione, vuol dire che il Paese diventa meno moderno. C’è poi un altro grande tema che non vedo presente, o almeno non adeguatamente presente, nel dibattito a sinistra.

Qual è questo tema, professor Fabbrini?
Cosa vuol dire crescere, e quindi produrre e redistribuire in un contesto d’interdipendenza. Nel dibattito in atto, l’Europa sembra ridursi a una dichiarazione di principio. Ma non è così. L’Europa non può essere più una dichiarazione di principio. Perché l’Europa rappresenta la struttura materiale dove si sviluppano i rapporti tra forze politiche. Se non ti poni il problema della crescita e soprattutto non spieghi come questa crescita possa e debba avvenire dentro il sistema un sistema d’interdipendenze, è evidente che si fa un lavoro di superficie. Noi non potremo crescere fuori dall’interdipendenza. Non siamo gli Stati Uniti. Crescita e redistribuzione, che in capitalismo liberale sono le due facce di una stessa medaglia, da noi non può avvenire se non all’interno di un sistema di interdipendenza europea.

Quali sfide e cambiamenti per l’Europa?
Come ci poniamo, ad esempio, il problema del Patto di stabilità e crescita. Come ci poniamo il problema che abbiamo un mercato unico a livello europeo costruito sull’idea che bisogna promuovere la competizione tra di noi quando poi abbiamo una competizione formidabile che viene dall’esterno, dagli Stati Uniti, dalla Cina, e noi non abbiamo dei campioni europei in grado di competere con attori geopolitici e geoeconomici di quella portata. C’è un cambiamento radicale. Nel senso che dobbiamo pensare in un modo diverso. Dobbiamo pensare al fatto che l’Europa deve essere strettamente al suo interno competitiva, impedire la nascita di trust, monopoli, come in qualche modo si è tentato di fare in questi cinquant’anni, ma l’Europa non può essere terra di conquista di multinazionali, grandi società, di Paesi esterni come gli Stati Uniti e la Cina in modo particolare ma non solo loro. Qui c’è un problema di cultura enorme. È finita un’epoca. Quella del dopo Guerra fredda. Siamo di fronte ad una epoca nuova, a un futuro che non conosciamo.

La sinistra europea come sta affrontando tutto questo?
Nel senso che il cancelliere socialdemocratico Scholz fa fatica a prendere atto che non puoi più dipendere dal gas a costo basso dei russi, non puoi andare avanti pensando che le tue merci hanno un mercato di sbocco in Cina, cioè due regimi, Cina e Russia, autocratici. Lì, nella coalizione di governo, gli unici che hanno un qualche pensiero innovativo sono i Verdi. La Spd, il più vecchio partito della sinistra al mondo, non riesce a pensare ad un altro modello di sviluppo e di crescita. Impediscono il price cap perché hanno paura che i russi gli chiudano il rubintetto. La grande Germania che doveva dare lezioni a tutti è arrivata ad una condizione in cui è dipendente dagli umori di un signore di Mosca. Siamo di fronte a una crisi epocale. Che riguarda anche le idee e non solamente le forze politiche. L’Europa si è costruita, soprattutto nell’idea di mercato unico, su un modello culturale che proviene dalla Germania. Quello che si chiama l’economia sociale di mercato, Abbiamo un mercato, lo regoliamo profondamente. E questo mercato regolato ci consente di derivare risorse su cui costruiamo il nostro formidabile welfare. E l’Europa è diversa dal resto del mondo perché noi abbiamo una protezione sociale formidabile. Questo mercato è stato fondamentale per aiutare l’Europa ad uscire dalla devastazione della Seconda guerra mondiale, ricostruirsi, creare stabilità sociale. Però questo modello iper regolativo come fa oggi ad aiutare l’Europa a diventare innovativa? Perché l’innovazione richiede anche di andare oltre le regole, ad affrontare sfide che quelle regole non permettono di far fronte, perché non erano state definite per questo cimento.

Quali rischi vede?
Il rischio è che l’Europa diventi una Svizzera stagnante, continuando ad andare avanti a piccoli passi mentre il mondo attorno a noi sta cambiando in modo radicale. Pensiamo alla difficoltà ad avere una politica della difesa comune, che implica investimenti condivisi nelle tecnologie militari, o nel cruciale campo energetico, puntando a sistemi di energia che non dipendano più dall’estero ma che siano rinnovabili. Tutto questo richiede una innovazione che non sta dentro la logica dell’economia sociale di mercato. Ci vuole più liberalismo anche in economia. Quando dico liberalismo intendo la capacità di sostenere le iniziative, d’imprenditori o di gruppi o di cooperative, perché da lì parte l’idea dell’innovazione. Steve Job non avrebbe mai potuto affermarsi in Europa. Le principali innovazioni tecnologiche degli ultimi vent’anni vengono dagli Stati Uniti, poca roba viene dall’Europa. Dobbiamo interrogarci su questo. La nostra è una economia benestante, quasi autoassolvente, soddisfatta di se stessa, mentre il mondo cambia. Io credo proprio he la sinistra dovrebbe essere “progressista”, cioè pensare al progresso e non limitarsi a chiedere di redistribuire qualcosa che non contribuisce a produrre. Questo è un problema di cambiamento del paradigma. Se non si affrontano questi grandi temi è difficile pensare che la sinistra possa essere utile non solo in Italia ma anche in Europa. Ma se si rimane a discutere sul caso Cozzolino e se la sinistra resta prigioniera della fallace convinzione di una presunta superiorità antropologica, non va da nessuna parte.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.