Il leader ucraino abbassa i toni
Cosa hanno detto Zelensky e Draghi in Parlamento: i due presidenti si sono scambiati i ruoli
Hanno invertito i ruoli, Zelensky in modalità “umanitaria” e Draghi in format marziale. “Mi appello al popolo italiano, voi che conoscete il valore della famiglia, dell’arte, della cultura e della democrazia” ha ripetuto più volte il presidente ucraino collegato da remoto con l’aula di Montecitorio. Nessuna richiesta di armi o di noflyzone, nessuno effetto sonoro come il file audio con il suono delle sirene. Nessun parallelismo storico: dopo quello con l’Olocausto fatto davanti alla Knesset israeliana, il presidente ucraino ha capito che certe semplificazioni sono e rischiose. Viceversa il premier Draghi ha usato una retorica emozionale (lui sempre così misurato) e ha schierato l’Italia senza se e senza ma dalla parte della resistenza ucraina “che non difende solo se stessa ma la nostra pace, la nostra libertà e la nostra sicurezza” e a cui “vanno riforniti aiuti anche militari”.
Un testa coda di ruoli che ha bucato e convinto. Tutti, da Fratelli d’Italia (“Zelensky ha parlato da leader europeo, l’invasione è un’aggressione alla Ue”) a Forza Italia (“Draghi è stato l’uomo forte della giornata” ha commentato Ruggeri), passando per il segretario Letta (“in Parlamento un momento di rara intensità che ha fatto onore al popolo italiano”) e il leader di Iv Matteo Renzi (“saggio che Zelensky cerchi la pace”). Parecchi distinguo tra i 5 Stelle con Conte che non vuole aumentare il budget militare della Ue e Vito Petrocelli, presidente della Commissione Difesa che annuncia che non voterà mai più la fiducia a Draghi e invita la delegazione 5 Stelle a lasciare la squadra di governo. Mentre Di Maio è allineato più che mai. “Bravo Zelensky, meno bravo Draghi” dice Nicola Fratoianni che tiene vivo da sempre il pacifismo anche se spesso non va di pari passo con la costruzione della pace. Luca Casarini, un altro compagno degli anni e delle battaglie no global, ha addirittura promosso entrambi: “Gli interventi di stamani, sia di Zelensky che di Draghi, sono stati uno dei momenti più alti della politica estera italiana di questi anni”.
Insomma, operazione compiuta. Il presidente della Camera Roberto Fico, regista dell’evento ha di che rallegrarsi. La temuta figuraccia non c’è stata. Anzi: i dodici minuti dell’intervento da remoto di Volodomyr Zelensky hanno spinto l’aula di Montecitorio a due convinte standing ovation cui lui ha risposto mettendo la mano sul cuore e chinando il capo in ringraziamento. Emozionante, appunto. E l’intervento di Draghi ha quasi spiazzato per la forza e l’intensità. Puntuto quando ha detto “l’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione europea”. Deciso quando ha sottolineato che “governo e maggioranza ma anche la principale forza di opposizione sono pronti a fare ancora più di quanto è stato fatto finora”. Si certo, le assenze ci sono state ma ben mimetizzate tra gli assenti giustificati per via del contingentamento causa Covid. Siamo alla settantina prevista. Chi ha fatto i conti punta il dito sui senatori e ne elenca “21 su 70 tra i 5 Stelle” e “27 su 63 tra i leghisti”. Gli altri sono i parlamentari di Alternativa c’è. La presenza in aula di tutti i leader ha fatto sì che le polemiche siano rinviate magari già a oggi quando il premier Draghi terrà l’informativa sul Consiglio Ue di giovedì e venerdì.
L’inversione di ruoli tra Draghi e Zelensky ha funzionato e ha evitato il rischio di mugugni o anche qualche fischio dai banchi dell’emiciclo. In un discorso di 12 minuti, il presidente ucraino ha denunciato che l’invasione russa “sta distruggendo le famiglie mentre la guerra continua a devastare le città ucraine”. L’Ucraina resiste perché “il mio popolo è diventato il mio esercito”. Ha chiesto agli italiani di immaginare che Genova sia Mariupol, la città sotto assedio da settimane, entrambi due porti strategici. “Immaginate Genova completamente bruciata” ha detto ai parlamentari, “immaginate se Roma fosse al posto di Kiev” avvertendo così che “l’Ucraina è il cancello per l’esercito russo e loro vogliono entrare in Europa. La barbarie non deve entrare ma ogni giorno abbiamo sirene, cadono bombe e missili”. Della serie che quello che succede oggi alla capitale ucraina potrebbe succedere domani a Roma. O ad un’altra capitale europea. Nessuna richiesta di una no-fly zone assicurata dalla Nato, come invece avvenuto davanti ad altri Parlamenti, ma l’auspicio di “altre sanzioni, altre pressioni”. Ha detto che sono “117 i bambini morti” e che “a Kiev ci sono truppe dell’esercito russo che torturano, violentano, rapiscono bimbi e distruggono tutto. Centinaia di migliaia di vite distrutte e case abbandonate. E tutto questo è iniziato da una persona sola”. Ha emozionato Zelensky perché ha saputo toccare i tasti giusti dell’italianità e ha convinto anche i più scettici quando ha detto: “Bisogna fare il possibile per garantire la pace”.
Se Zelensky ha fatto il pacificatore, Draghi è stato marziale quando ha sottolineato “l’ammirazione per il coraggio, la determinazione e il patriottismo del presidente Zelensky e dei cittadini ucraini”. Ha definito “eroica la resistenza di Mariupol, Kharkiv, Odessa e di tutti i luoghi su cui si abbatte la ferocia del presidente Putin”. Il premier ha accompagnato la gravità delle parole con la solennità della voce e ha posato i fogli, in un paio di occasioni, per lanciare l’applauso dell’aula. Quando ha detto che “l’Ucraina non difende solo se stessa ma la nostra pace libertà e sicurezza e per questo vi siamo profondamente grati”. E quando ha sottolineato che “di fronte ai massacri servono gli aiuti anche militari alla Resistenza”. Nel post seduta sono state fatte tante ipotesi su questo inatteso scambio di ruoli. Vengono chiamate in causa le rispettive diplomazie che nei briefing preparativi “hanno giudicato utile a tutti l’inversione dei ruoli”. Zelensky aveva esagerato con alcuni paragoni storici. E doveva anche far parlare i fatti anziché chiedere una nofly zone che sarebbe per forza l’inizio della terza guerra mondiale.
Doveva, insomma, cambiare lo schema del discorso. E Draghi ha bisogno di confermare, alla vigilia del Consiglio europeo e del vertice Nato, entrambi a Bruxelles ed entrambi con Joe Biden ospite d’onore, che l’Italia non è il paese dell’equidistanza e dei “né-né” ma ha le idee molte chiare su quale sia la parte giusta dove stare.
Il collegamento con Zelensky ha fornito elementi utili ai dubbiosi per capire perché la resa non è tra le cose possibili. Perché aiutare l’Ucraina a difendersi vuol dire difendere noi stessi, i nostri diritti faticosamente conquistati dopo la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto ha dato un mano a Draghi per togliersi dall’angolo dove le diplomazie occidentali hanno un po’ relegato l’Italia perché sospettata di filoputinismo. Di poter essere “il punto debole” della compattezza dell’alleanza euroatlantica. Del resto non è colpa di Draghi se nella maggioranza di governo ci sono due partiti – Lega e 5 Stelle – che appena tre anni fa erano invitati come relatori alle feste del partito di Putin. Prima di collegarsi con il Parlamento italiano, Zelensky ha parlato a lungo anche con Papa Francesco. Anche questo colloquio può aver modificato l’impostazione dell’intervento in chiave umanitaria, compassionevole ma sempre coraggiosa. Ancora una volta ieri Zelensky si è mostrato un abilissimo comunicatore. E il soft power – assai di più dell’hard power di bombe e artiglieria – alla fine sarà il jolly che farà la differenza tra vincitori e vinti in questa maledetta guerra.
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