Volodymyr Zelensky oggi riceve gli applausi anche del Parlamento italiano. E dire che nel 2019 il presidente ucraino in carica, Poroshenko, quando a sfidarlo si presentò Zelensky, che all’epoca era un celebre comico, lo accusò di essere stato per ben quattro volte renitente alla leva. Un nemico della patria, un burattino filorusso e pure un tossicodipendente, oltre che “un ologramma”, dicevano i vertici dello Stato ucraino per demonizzarlo. Si sa: le campagne elettorali sono aspre ovunque.

È ancora presto per stabilire se dall’eroe di plastica di allora è nato tra le macerie il nuovo Churchill che dirige le operazioni di guerra sino al trionfo, come suggerisce un ammirato Giuliano Ferrara. Sicuro è che, con la sua icona di combattente irregolare, Zelensky sembra essere diventato altro rispetto alla sua origine. La sua origine è antipolitica e non etno-nazionalista. In un saggio (The 2019 Presidential Election in Ukraine: Populism, the Influence of the Media, and the Victory of the Virtual Candidate) Olga Mashtaler ricostruisce il profilo di Zelensky come esemplare di un “populismo algoritmico”. Attorno a una celebrità televisiva un’abile strategia costruisce il messaggio per sfondare tra i cittadini sedotti dalla narrazione più inverosimile. Quando Zelensky si candidò, la narrazione costruì l’immagine di un outsider, persona semplice ed estranea ai giochi dei potenti. Veniva così camuffata, ma fa parte del gioco dello storytelling, la reale sua condizione di «ricco milionario, produttore generale al canale televisivo Inter, il cui proprietario era l’oligarca ucraino Firtash. Aveva anche stretti legami d’affari con l’oligarca Kolomoyskyi, il proprietario del canale televisivo 1+1».

In un passaggio dall’altoparlante ad Instagram, dai soviet all’algoritmo, dall’apparatchik al “politainment”, dalla terra ai social il comico giustiziere si avvale delle più sofisticate tecnologie della comunicazione digitale per conquistare il potere. Archiviato Facebook come archeologia che con un supporto testuale troppo complesso si adatta solo ad un segmento vecchio e scolarizzato di elettori, predilige Instagram con le sue forme brevi ed emozionali di comunicazione interattiva, con video e live-stream, cioè contenuti visivi piuttosto che testuali. Con influencer, fake news, eserciti di “trolls” per denigrare i politici al potere, anche Mosca ha guardato con interesse alla sua ascesa in un’ottica di minor danno rispetto all’altro candidato che era più marcatamente antirusso. I media russi e i leader separatisti si sono schierati per Zelensky il quale nel manifesto elettorale non menzionava l’Ue e rinviava la “figa adesione” alla Nato a un successivo referendum popolare. Il cavallo su cui puntava l’Occidente era Poroshenko, che arrestava gli attivisti e però allestiva una coalizione internazionale antimoscovita, organizzava sanzioni e siglava l’accordo di associazione con l’Ue. Gli appoggi della Nato per la ricostruzione dell’esercito ucraino che si ritrovava letteralmente sbandato dopo il 2014 sono stati davvero cospicui.

All’immagine monumentale di Poroshenko, che da capo sovranista si scalda con enfasi contro il nemico esterno, Zelensky contrappone l’ironia del comico privo di ogni trasporto patriottico e capace di vendere immagini virtuali (anche attraverso selfie destinati a smartphone) per colpire ridendo il nemico interno (“il vecchio sistema politico”). Nel dibattito tra i candidati svoltosi in uno stadio «Poroshenko inizia a cantare l’inno nazionale con la mano sul cuore. Zelensky invece sorride urtando i suoi fan con le dita in segno di vittoria, più come una star del cinema che come un leader nazionale» (p. 147). Adattando il messaggio al mezzo e senza ricorrere a comizi, conferenze, viaggi, talk show o giornali Zelensky con un “costrutto algoritmo” riesce a coprire con logiche settoriali i vari segmenti del pubblico “unito dalla negazione dello stato reale delle cose” e quindi sedotto dall’invito a mandare tutti a casa. La sua immagine nei social (ha un canale YouTube) cura più la abilità di un corpo sportivo che la postura di un patriota. La palestra, più che la trincea, sembra il suo luogo prediletto.

Diversamente dal presidente in carica, artefice di leggi contro la lingua russa, creatore della nuova Chiesa ortodossa unificata dell’Ucraina, il populismo di Zelensky non assume curvature etniche e non demonizza minoranze, culture. Recupera anche tra i suoi consiglieri le vecchie élite politiche messe al bando da leggi repressive per lo scioglimento di partiti prima al governo. Per questo fu etichettato come il cavallo di Troia di Mosca. Rispetto al conservatorismo nazionalista-identitario-religioso del presidente uscente, che invocava un secondo mandato con lo slogan “Un esercito protegge la nostra patria. Una lingua protegge il nostro cuore. Una chiesa protegge la nostra anima”, il comico rifiuta la retorica patriottarda. E cavalca una immaginazione antipolitica e antiburocratica incentrata sul sogno iperdemocratico e sul valore della inesperienza politica. Olga Mashtaler ha rilevato che nello stile comunicativo interattivo e partecipativo, nella retorica del sito web come luogo di selezione del nuovo personale di governo e nel coinvolgimento degli utenti della piattaforma alle decisioni si possono “vedere analogie con Beppe Grillo e il M5s italiano”. Alla frattura Est-Ovest riesce così a sostituire la dicotomia vecchio-nuovo, politici-gente comune che è la grammatica preferita del populismo.

La retorica di Zelensky è incentrata sul sogno dello Stato-smartphone (avviare un’impresa in un’ora, ottenere il passaporto in 15 minuti, votare alle elezioni in un secondo grazie ad Internet), sulla promessa della abolizione della povertà, sul trionfo della onestà grazie alla rete (“un computer non accetta tangenti”). Il primo atto del presidente è stato quello sulla sovranità del popolo e prevede la centralità del referendum, la democrazia diretta, il decentramento amministrativo, la digitalizzazione, la partecipazione on line. Molto poco post-moderna è invece la cultura dei diritti individuali. Il partito di Zelensky ha proposto di emendare il codice penale per criminalizzare la propaganda dell’omosessualità e transessualità. «Mentre Zelensky ha ripetutamente dichiarato che la sua strategia di politica estera include l’integrazione europea, i funzionari statali sembrano ignorare l’uguaglianza di genere e di orientamento sessuale come valori fondamentali dell’Unione in cui sostengono di aspirare all’adesione» (M. Shevtsova, LGBTI Politics and Value Change in Ukraine and Turkey, 2021, p. 174).

Oltre all’immaginario esiste la dimensione del materiale. E Zelensky si rivolge agli oligarchi con la privatizzazione delle terre e la cosiddetta “dichiarazione zero” che permette di normalizzare i capitali sporchi con una tassa del 5%. Noto è il rapporto con un oligarca che possiede banche, squadre di calcio, televisioni e milizie private. Il suo appoggio è essenziale nella lotta contro l’altro oligarca che nel 2014 ha conquistato la presidenza (ha anche lui imprese, reti televisive, uno strutturale conflitto di interesse). Gli ucraini credono di entrare in Europa e in realtà è l’Europa della post-politica che viene sempre più risucchiata dall’Ucraina. Oltre agli applausi che i parlamenti riservano al capo di uno Stato invaso che resiste alle armi straniere, bisogna pensare anche alle condizioni per imporre una soluzione politica ai belligeranti. La sollecitazione di Zelensky verso un maggior coinvolgimento europeo in termini di armi e nuove opzioni strategiche è comprensibile per un paese offeso che intende strappare con ulteriori risorse più tempo al nemico. Tuttavia l’allargamento del conflitto non coincide con gli interessi delle nazioni europee, che non possono prescindere da durevoli condizioni di pace.

Se si pensa che la guerra alle porte di Kiev sia il semplice inizio di un contrasto metafisico irriducibile, tra potenze della società aperta e criminali di guerra, la proposta di Zelensky non ha alternative: tra bene e male non si negozia. A Kiev si combatte per l’Europa libera e quindi mettersi l’elmetto è una risoluzione contro le potenze del male assoluto. L’allarme di Zelensky che si sente già nella terza guerra mondiale sembra poco realistico dinanzi a un esercito con una dotazione tecnologica non molto sofisticata (persino rispetto agli arsenali ucraini) e a un paese con un isolamento internazionale pesante e una prospettiva tangibile di fallimento economico-finanziario. Alla minaccia, che al momento è solo ipotetica, del satrapo orientale che intende diventare il sovrano d’Europa è rischioso rispondere con l’opzione, essa sì reale, di una guerra nei cieli destinata ad accelerare l’allargamento del fronte bellico, in un contesto dove basta il classico incidente per scatenare l’irreparabile. Chi in nome della resistenza infinita ricorre al monito che fu anche kantiano “fiat iustitia et pereat mundus” dovrebbe tenere in considerazione l’obiezione che Hans Jonas formulava verso di esso: associare la distruzione del mondo all’assolutezza di una doverosità etica incondizionata non ha propriamente nulla di morale. Non esiste una obbligante etica della convinzione che comporta la distruzione delle cose della natura, degli altri.

Che in nome della libertà ucraina affidata alle armi si possano sacrificare i dati economici, come ha sostenuto Letta, è una formulazione retorica che se presa sul serio trascura i costi insostenibili per la democrazia e la libertà europea di un collasso dell’apparato produttivo. Che Turchia e Israele abbiano scelto una condotta più sobria di quella europea dimostra che opzioni diverse sono possibili pur nella chiarezza della collocazione. Il problema non è quello di invitare l’Ucraina alla resa ma di avere la forza politica per scongiurare chiusure, ripristinare le minimali condizioni dell’ordine e della sicurezza internazionale. In questo campo, più che sul capo che conduce una politica di guerra, occorrerebbe confidare sul comico che fece il pieno dei voti con la promessa di una risoluzione politica della conflittualità armata.

Rispetto alla metamorfosi pericolosamente costruttiva di un comico che diventa Churchill in una nuova guerra mondiale sarebbe preferibile una trasformazione inversa, quella che faccia tornare al posto del presidente il comico del 2019. Sarebbe infatti significativo che, dinanzi al parlamento italiano, Zelensky ripetesse le parole che aveva utilizzato contro il militarismo al potere. «Sono pronto a negoziare anche con il diavolo, pur di evitare la morte, fosse solo di una sola persona. È necessario fare un primo passo: smettere di sparare e sviluppare il nostro paese». Il comico, che era pronto a negoziare anche con il diavolo per la pace, è di gran lunga preferibile al presidente che oggi invoca la no-fly zone e straparla di Olocausto in nome di una giustizia assoluta che può trascinare nella catastrofe.