L’imperativo è fermare la guerra. Proprio perché è fatta di stragi e orrori come quelli commessi dalle truppe russe a Bucha e in tutte le città assediate e invase da carri armati e bersagliate da missili. Perché, anche al di là delle atrocità che ora vediamo (ci sono state e ci sono guerre dove non vediamo nulla, e semplicemente spariscono, non esistono dal punto di vista delle vittime) invadere un paese di 40 milioni di abitanti, trasformarli in ostaggi, assediare e affamare le città, terrorizzare e trasformare una popolazione in una massa impotente di profughi, è già un crimine efferato. Inaccettabile. Se vi fosse, se vi sarà mai, un giudizio del Tribunale Penale Internazionale, già per questo, chi ha scatenato questo inferno in Ucraina, dovrebbe risponderne. Ma la guerra è ora, adesso. Quei crimini, questo grande crimine, si sta compiendo ogni minuto che passa contro civili inermi, contro donne, uomini e bambini.

C’è chi nega i crimini, chi non crede alle vittime, ai testimoni. Si pone oggettivamente, e nemmeno tanto inconsapevolmente, dalla parte di chi li ha commessi. Di chi li “giustifica”. C’è chi non crede più a niente, nemmeno al fatto che la Terra sia sferica. C’è chi dà la precedenza, rispetto alla rabbia e alla pietà urlate da coloro che non possono accettare, a denunciare l’utilizzo distorto che fanno di questi crimini coloro che non vogliono la fine della guerra, ma il suo divenire permanente, lunga anni. Tutto vero, ma la guerra continua, e il suo carattere costituente si plasma su un assunto: se sei una superpotenza nucleare puoi fare tutto, e nessuno può giudicare, può ribellarsi, può osare anche solo pensare di poterti fermare. E decidi tu, con la forza della violenza estrema e con la minaccia dell’olocausto, quando e dove fermarti, se e come accettare il negoziato. Decidi tu, grazie al fatto che hai convinto metà del mondo che era necessario farlo, e che è possibile farlo. In questa guerra, a 30 anni dall’anniversario dell’assedio di Sarajevo, è come se uno degli assassini stragisti di allora, Milosevic, giudicato tale dal tanto evocato Tribunale Internazionale, si stesse prendendo la rivincita: vediamo come mi fermate, ora che ho le testate nucleari.

Lì iniziò tutto dalla Kraijna, qui in Ucraina. Confine a sud e a nord del vecchio impero asburgico. Vucic, leader serbo che ha appena vinto le elezioni, nell’ultimo anno si è recato 30 volte a Mosca. È un putiniano di ferro. A trent’anni da quel massacro operato dalle truppe serbo-bosniache ai danni della popolazione civile di Sarajevo e dell’orrore di Srebrenica, compiuti sotto gli occhi della missione UnproFor delle Nazioni Unite, ci sono molti elementi utili a comprendere anche questa guerra. Ma è la “scala” la vera differenza. Qui, a differenza della tragedia balcanica, il campo è tutta l’Europa e con essa il mondo intero. C’è chi scrive, come il bravissimo Gigi Riva che quella guerra l’ha vissuta e raccontata, che l’Onu è morta lì, a Sarajevo. O come dice il mio amico Tommaso Di Francesco, anche lui presente durante la guerra, che invece precisa che l’Onu lì “è stata suicidata”. Ma oggi, ci rendiamo conto cosa significa avere consapevolezza che le Nazioni Unite non esistono più, da allora e forse da prima, dall’Iraq, dalla Somalia? Di fronte a questo abisso di cui non abbiamo ancora percepito l’immensa e terribile profondità, qual è la conseguenza di questo? Se non vi è la possibilità di fermare in nessun modo alternativo alla guerra il delirio del Milosevic, del Karadžić, all’ennesima potenza, come si fa? Ovvio che noi non possiamo pensare a un mondo dove la guerra, quella nucleare in aggiunta, sia il prezzo da pagare, in termini di milioni di morti, per “riordinare” il mondo.

È in questo vuoto politico – l’assenza delle Nazioni Unite – che nel passato sono entrate in gioco la Nato e gli Stati Uniti, come entità più forti in campo. Ma adesso, che cosa accade, quando il nemico diretto è una potenza nucleare, “grande” quanto loro? L’unico spazio, angusto, che potrebbe agire fuori dalla strada obbligata e inaccettabile della guerra totale, è quello dell’Europa. Una Europa capace di fermare la guerra imponendo con una forza e una intelligenza politica diversa da quella usata finora, un cessate il fuoco, e una possibile tregua armata che cominci a disinnescare l’impensabile. La “forza” è fatta di tante componenti, e se escludiamo per scelta e per obbligo quella estrema, preferita peraltro dal despota del Cremlino, chi si batte contro la guerra ha l’obbligo di definirle. In termini di pressione contro l’aggressore, contro chi vuole imporre un nuovo ordine basato sul principio della “punizione, annientamento e ri-educazione” dei popoli (altro che autodeterminazione ) tre sono le opzioni: armi e guerra, e quindi possibile escalation con altissimo numero di vittime civili; oppure sottrarre soldi che alimentano la macchina da guerra di chi aggredisce; o altrimenti, come fatto fino a ora dall’Onu – “paralizzata” come dice papa Francesco, o morta di morte naturale, come dice Riva, o “suicidata” dagli Usa, come scrive Tommaso Di Francesco – si può anche non fare nulla, o far finta di fare, lasciare compiere i massacri, sperando che il più forte sul campo decida che gli basta quello che ha fatto.

Tra queste opzioni io penso sia realistico, se non vogliamo alimentare la guerra, attestarci sull’ipotesi del sottrarre alla guerra più terreno possibile. E dunque per questo, non per codardia o peggio, penso fin dall’inizio che continuare a inviare armi all’esercito ucraino non aiuti la resistenza, ma la complichi, a meno che l’esito non sia partecipare direttamente a una guerra nucleare. Ma questa posizione, contro l’invio di armi in Ucraina, non può stare da sola. Deve abbinarsi a una cessazione immediata del finanziamento di Putin tramite il gas e le fonti fossili. Che rappresentano il 50% del suo export. Non mi capacito che il vuoto di iniziativa ed intelligenza politica dell’Europa ci abbia condotto nel paradosso rappresentato dal fatto che, dall’inizio dell’invasione russa, all’Ucraina abbiamo dato 1 miliardo di euro e tante armi, e alla Russia 40 miliardi di euro per pagarsi la guerra contro l’Ucraina. Anche eticamente, se passa il principio, come è stato finora – basti guardare la Libia o l’Egitto – che qualsiasi tipo di business è più importante di qualsiasi valore, come potremo più combattere contro il liberismo sfrenato che ha proprio in questo assunto la sua pietra miliare? Come combattere i produttori di armi, se si conferma l’idea che un conto sono gli affari, e un altro il rispetto dei diritti umani? Per fare questa scelta su un tipo di “forza” diversa da utilizzare, nel tentativo di tenere insieme il disarmo e una pace non funzionale a chi vuole rieducare l’Occidente con i carri armati e le prediche di Cirillo II, serve una strategia. Che non può coincidere con quella di un’altra superpotenza nucleare, e cioè gli Stati Uniti.

L’Europa non può parlare per voce di Stoltenberg, peraltro molto più misurato di Biden, ma deve trovare un proprio ruolo per smarcarsi. Per potersi muovere evitando che siano Orban ed Erdogan, ad assumerlo. Perché se i “negoziatori” sono loro, allora dobbiamo sapere che il massacro di Erbil diventa più che lecito, come l’incarcerazione di dissidenti, l’uccisione degli oppositori politici e tutte le nefandezze che conosciamo diventano regola. La “forza” è un problema non solo dei potenti, ma anche di quelli che da loro sono comandati o governati. Quando gli stolti della Santa alleanza putiniana mi dicono che sono “servo degli amerikani” perché rifiuto la narrazione che fa comodo a un despota, dicono una delle solite stronzate. Le stesse dell’altra propaganda, quella dei Merlo ad esempio, quando si scagliano contro i pacifisti. Sono uguali, fratelli gemelli. Ma che io sia legato al Black Lives Matter, alla storia del movimento per i diritti civili di Martin Luther King e Rosa Parks, a Woodstock e alla bit generation, a Timothy Leary e al cyberpunk, non c’è alcun dubbio. Ho imparato da piccolo che i “buoni” erano gli Indiani e non i Cow Boy da Bonelli e Galep con Tex Willer e i suoi pards. Ho sempre preferito sex, drugs and rock’roll ai discorsi di Gromyko. Sono legato ai Weathermen Underground e alle Black Panther, a Malcolm X e agli attivisti e attiviste americani che ho conosciuto a Seattle. Sì, devo ammetterlo, sono un po’ filoamericano in questo senso.

Per avere “forza” un nuovo movimento contro la guerra e per il disarmo, secondo me non può che essere europeo. I nazionalismi sono la causa e il prodotto finale moltiplicato per generazioni di quello che stiamo vedendo. Per avere “forza” deve agire questo movimento: di fronte ai massacri di Bucha deve fare quello che è giusto: dire che sono massacri, e prendersela con chi ha causato tutto questo, adesso e non 200 anni fa, in Ucraina, distruggendo un paese e provocando la più grave crisi umanitaria in Europa dalla seconda guerra mondiale. Per dare forza a un discorso e a una pratica contro la guerra, bisogna agire da disertori di tutti gli eserciti. Ma un esercito è anche quello sul quale confida Putin: quello che rimanda i giudizi “per troppa complessità”. Non c’è nulla di complesso nel racconto di una madre che ha visto stuprare sua figlia. La “forza” sarebbe quella di estendere in tutta Europa e in tutto il mondo, le azioni contro l’apparato della Santa Alleanza Putiniana: da Bannon/Trump ai gruppi di estrema destra in ogni paese, dalle ambasciate ai consolati. Come abbiamo sempre fatto, per l’invasione dell’Iraq come per il popolo curdo. Per avere forza dobbiamo sabotare i confini: quelli a est e quelli a sud, e mettere in salvo fratelli e sorelle che scappano dagli orrori della guerra.