Vi stupisce la compattezza del fronte interventista? E la durezza martellante delle posizioni di questo fronte? Vi colpisce – per esempio – che un giornale moderno e tradizionalmente aperto, come il “Corriere della Sera”, oggi sia trasformato in un monolite dove non è ammesso neppure un sussurro gentile di dissenso? Vi stupisce che – sulla grande stampa e praticamente, con rarissime eccezioni, in tutte le reti Tv – chi prova a emettere qualche suono di obiezione alla linea ufficiale della Nazione sia indicato come nemico della patria e persona al soldo di Putin?

Si, un po’ mi stupisce, un po’ no. Io credo che questa nuova forma di pensiero militarizzato non nasca dal nulla. Sia piuttosto il precipitare di un fenomeno di lunga lena che io, semplificando appena un po’, chiamo populismo. Può sembrare un paradosso. La nuova spinta patriottarda e interventista, intollerante di ogni distinguo, viene proprio da quelle forze intellettuali e politiche che sono sempre state, o sembrate, il bersaglio del populismo. In Italia il populismo ha due padri: Beppe Grillo e Umberto Bossi. In forme diverse, con intensità diverse, con diversi retroterra culturali, ma nella sostanza simili. Bossi fu il primo a indicare nella politica dei partiti – cioè nella forma di democrazia fino a quel momento sperimentata nel nostro paese – il male dell’Italia. E fu il primo a cambiare radicalmente il linguaggio della politica e dei giornali. Dai sofismi di Moro e di Piazzesi alle invettive e ai gesti e ai rumori (buhhh, bongo bongo, il gesto dell’ombrello, il cappio sventolato in aula contro i socialisti) dei ragazzi della Lega.

Grillo arrivò circa 15 anni dopo. Usando lo stesso linguaggio e le stesse suggestioni, ma rivolgendosi, con successo, non all’elettorato conservatore del Nord, sul quale aveva fatto breccia la Lega, ma a strati molto ampi di popolo di sinistra, soprattutto ex Pci, che erano stati spostati su posizioni vagamente qualunquiste prima dai magistrati guidati da Borrelli poi dal fenomeno originalissimo e clamoroso dei Girotondi, quelli di Nanni Moretti e di Paolo Flores, che irruppero nella politica italiana in un baleno, imprevisti, indebolendo la sinistra tradizionale, indebolendo soprattutto la sinistra radicale e no global e pacifista, e favorendo un ritorno del centrodestra che si presentò al paese come unico garante della stabilità e della democrazia politica.

Da quel momento in poi il populismo è cresciuto. A sinistra e a destra. Sicuramente più a sinistra che a destra. Penetrando nel profondo nei partiti, nei giornali, nelle Tv. Radendo al suolo quello che era rimasto dell’intellettualità pensante, che – con tutti i suoi difetti – era stata per decenni uno dei punti di forza della prima Repubblica e in particolare della sinistra (ma anche, largamente, della Democrazia cristiana, che tra l’altro aveva grandi intellettuali tra i suoi dirigenti). Noi, probabilmente, non ci siamo accorti di quanto il populismo stava corrodendo tutto il sistema Italia,. Lo stava penetrando, irradiando. Io credo che oggi sia arrivato al suo ultimo passo, cioè al trionfo. Con la conquista dell’establishment e l’affermazione del pensiero autoritario che si presenta ora come pensiero ufficiale e indiscutibile delle classi dirigenti e come pensiero sicuro ed affidabile.

Così si arriva al “Corriere di Guerra”. Dico il Corriere semplicemente perché Il “Corriere della Sera” è sempre stato, e continua ad essere, il luogo nel quale si concentra lo spirito pubblico della grande e della migliore borghesia italiana. È il giornale che quasi sessant’anni fa capì il ‘68, e senza farsi inglobare riuscì ad entrare in sintonia con quella generazione e con la sua spinta ribelle e sovvertitrice di valori. È il giornale che ha saputo accompagnare la svolta liberista degli anni ‘80, senza rompere con la sinistra. È il giornale che quando Berlusconi ha spaccato, nella borghesia, la monoliticità del potere dei torinesi e degli Agnelli, è riuscito a restare agnellista senza farsi trascinare dall’antiberlusconismo che stava travolgendo quel pezzo di vecchia borghesia. È il giornale che ha sempre saputo difendere, anche nei momenti di massimo sbandamento, l’unità della borghesia italiana. Persino quando, con grande scaltrezza, riuscì a mettersi alla testa di Mani Pulite senza farsi fagocitare e restando sulla cresta dell’onda.

Oggi il Corriere è la massima espressione dello spirito guerresco. Perché? Perché ha deciso di cedere al populismo. Di sconfiggere i ceti dirigenti debolissimi e reazionari del vecchio populismo leghista e grillino, sostituendoli con nuovi gruppi dirigenti e un nuovo strato intellettuale, capaci di trasformare il populismo in ”armismo”, in “americanismo” persino, se serve, in zelenskismo. E capace di guidare una lotta senza quartiere alle frange dissidenti, per annientarle. Così come nel 93 e nel 94 Il Corriere guidò l’annientamento di quel poco che restava a difesa della prima Repubblica. Niente di nuovo, allora? No, no, molto di nuovo. E inaspettato. Non ci aspettavamo che il populismo trionfasse. Ora è lì. Ha piantato la bandiera anche su palazzo Chigi.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.