Da anni in Italia il tema delle riforme passa come una cometa nel cielo della politica illuminando in un giuoco di illusioni ottiche gli astanti oppure precipita come un meteorite a terra e richiede tempo per riorganizzare le istituzioni sconvolte. Prima dei temi di merito, per l’esito delle riforme è stato spesso determinante il contesto nel quale le proposte di cambiamento – in particolare della Costituzione – sono state avanzate, quasi approvate (2006 e 2016) o approvate definitivamente (da ultimo la riduzione del numero dei parlamentari). Ed è proprio il contesto a fare oggi la differenza e a suggerirci che adesso si può arrivare a un intervento utilmente innovativo.

In primo luogo l’ampiezza della compagine di Governo apre scenari interessanti. Evitando di cadere nella trappola tutta ideologica e giuridicamente infondata per cui di riforme costituzionali l’esecutivo non dovrebbe occuparsene (e dove sta scritto?), ferme restando le legittime aspirazioni dell’unica forza di opposizione in Parlamento, perché non lavorare subito a una serie di misure condivise? L’ampiezza della coalizione governativa potrebbe evitare quello che è accaduto in altre occasioni dal momento in cui nessuna parte politica potrebbe strumentalizzare le scelte di riforma approvate dall’altra per costruire un attacco politico anche se le condivide; come è accaduto sia nel 2006 che nel 2016 allorché il tema è divenuto un voto pro o contro una forza politica o addirittura una persona. Almeno tre misure condivise da tutti a parole potrebbero essere riversate nell’inchiostro delle norme, non per inseguire modelli ideali (o peggio ancora ideologici) fuori dal contesto, ma per supportare la fase di ripresa e crescita economica e sociale.

Prima di tutto si potrebbe introdurre un tetto di tassazione dei redditi che bilanci l’inserimento nel 2012 del principio dell’equilibrio di bilancio in Costituzione. La tecnica normativa sul tema non è semplice, ma una scelta di questo tipo aiuterebbe l’indirizzo costituzionale che si impone alla politica, troppo spesso propensa alla spesa pubblica (non sempre utile) proprio dai pochi limiti formalmente presenti per drenare risorse nelle casse pubbliche.

Seconda riforma che aiuterebbe lo sviluppo del Paese potrebbe consistere in una riscrittura dell’art. 117 della Costituzione elaborando, sulla base della giurisprudenza costituzionale di questi anni ormai consolidata, un testo che riduca le impugnative delle leggi tra lo Stato e le Regioni alla corte costituzionale con l’introduzione di una clausola di flessibilità bilaterale: consentire ai due legislatori di decidere insieme come “dividersi” le competenze nell’ambito della più ampie etichette che descrivono le materie. Questa “disponibilità” del riparto, oggi negata in sede giurisdizionale, costituirebbe una clausola di flessibilità del sistema che aiuterebbe la crescita impedendo di rallentare i processi decisionali quando le leggi restano in vigore anche se impugnate e vengono ritrattate, modificate o addirittura annullate – alcuni mesi dopo la loro entrata in vigore – seminando incertezza normativa nel sistema: chi investirebbe sulla base di norme legislative sub iudice che potrebbero essere cancellate?

Mentre le prime due riforme riguarderebbero direttamente la Costituzione, muovendo dalle esigenze di una decisione pubblica veloce e qualificata, la terza parla dei modelli democratici e interessa la legge elettorale. Come decidere la formula senza esaminare il contesto? Le democrazie consolidate, liberali e costituzionali stanno sperimentando in forma crescente coalizioni di governo ampie se non ampissime e comunque fuori dai parametri di dialogo delle forze politiche del Novecento: grandi coalizioni a ripetizione in Germania, Verdi e popolari insieme in Austria, il partito di Macron che raccoglie più esponenti di varie forze tradizionali, per non parlare del Governo Draghi che, attenzione, non è tecnico ma “politicamente ampio”. Si tratta di un dato chiaro che ci dice che oggi il confronto è tra democrazie liberali e democrature, oligarchie vestite da democrazia dove regnano pochi assumendo di interpretare un volere assunto come generale. Che fa la democrazia liberale per difendersi? Non divide le forze in base agli schemi ideologici ma – in un mondo frammentato dove le differenze identitarie creano gruppi sociali sempre più piccoli e differenziati – associa nei meccanismi decisionali un numero sempre più ampio di rappresentanti eletti.

Si crea una volontà generale, si potrebbe dire, che tende a essere “più generale” nel coinvolgimento e nel merito delle scelte, più condivisa, ma con un metodo dialettico democratico e liberale. Cosa fanno i sistemi autocratici? Diversamente dal nostro, impongono la volontà generale intesa come indiscutibile perché assunta come vera e non come sintesi delle differenze. Se questa ricostruzione ha un qualche fondamento, allora il sistema elettorale nazionale non può che essere proporzionale e tendere a sviluppare un “metodo Draghi” a prescindere dalla figura che guiderà il Governo in un determinato momento. Il trionfo del libero mandato parlamentare in questa legislatura iniziata con il 55% dei parlamentari eletti in liste populiste e sovraniste e con progetti di legge costituzionale per minarla, unitamente alle penali per alcuni eletti che cambiassero gruppo, ci dice che il fenomeno del “parlamentarismo a largo consenso” non è una eccezione ma forse un modo nuovo di assettarsi della democrazia liberale di stampo costituzionale.

Ci si stupisce se leader antieuropei o giustizialisti dirottino verso opposte posizioni. È solo la conferma del fatto che la democrazia liberale è il modello migliore al mondo perché preserva e tutela le differenze e produce scelte meditate e virtuose. Insomma, è la democrazia bellezza, che si aggiorna per traguardare i secoli rispettando la propria funzione: il progresso dell’umanità nella libertà.