Per cinquanta anni gli italiani sono stati chiamati a votare per il Parlamento con una formula proporzionale, quella scelta con ottime ragioni per l’elezione dell’Assemblea Costituente. Il cittadino elettore votava per il suo partito e i partiti sulla base dei voti e dei seggi ottenuti in proporzione in Parlamento creavano un esecutivo di coalizione. Per quasi tutto quel periodo esso è stato a dominante democristiana, ma necessitante una coalizione, prima fra la Dc e i piccoli partiti laici del centro, poi anche con il Partito Socialista.

Per tutto quel periodo il sistema politico italiano era stato caratterizzato da alcuni studiosi come una quasi-democrazia, cioè un sistema politico nel quale elezioni, libere, ripetute e competitive non producevano però alternanza al governo del paese. Fino al suo collasso quel sistema ha funzionato, l’alternativa di governo a guida comunista non era praticabile in un ordine mondiale diviso in blocchi ostili e contrapposti e la presenza dei partiti del centro in seno alle coalizioni di governo rendevano meno forte l’egemonia della Democrazia cristiana, i cui oligarchi ruotavano alla testa dell’esecutivo. Poi a partire dagli anni 90 è iniziata una fase di transizione ma sarebbe meglio dire di ristrutturazione del sistema dei partiti scossi dal cedimento di quelli che erano stati i fondatori e le fondamenta dell’ordine costituzionale del dopoguerra. La scossa tellurica è stata forte e non è troppo sorprendente che questa fase sia ancora in via di riordino.

Il culmine del disordine è emerso con il Parlamento emerso dalle elezioni del 2018 il quale ha messo in evidenza un paese diviso in tre fazioni ostili e ha prodotto maggioranze a due basate su coalizioni impossibili, al punto che le tre parti sono giunte ad accettare la necessità provvisoria di un governo di tregua, affidato a un leader esterno ai partiti politici, ma di provata competenza e garante della fedeltà del paese alla Unione Europea, che come ormai sembrano capire tutti è la nostra casa comune. La fase che abbiamo chiamato di assestamento ha visto, come era in certa misura inevitabile, il succedersi di diverse leggi elettorali, più o meno maggioritarie, due delle quali sono state cancellate dalla Corte Costituzionale. È iniziato, in realtà, nel 2014 un complesso dialogo a distanza fra la Corte e il Parlamento a proposito della legge elettorale. La Consulta in due occasioni (con le sentenze 1/2014 e 35/2017) ha cancellato parti essenziali prima della legge Calderoli del 2005 poi di quella detta Italicum del 2015, senza peraltro imporre una sua legge, ma invitando di fatto il Parlamento a riscriverla, come è poi accaduto. Due osservazioni sono necessarie su quello che chiamo qui dialogo.

Innanzitutto, la Corte non poteva cancellare la legge elettorale in toto, sopprimendo la norma alla base del funzionamento di una democrazia rappresentativa. Essa aveva l’obbligo di residuare una legge che sopravvivesse alla caducazione delle parti cancellate. Sicché in entrambe i casi sono rimaste in vita leggi residue proporzionali. Queste peraltro non sono mai state applicate, poiché il Parlamento ha accolto la richiesta di riscrivere la legge, che era poi la richiesta di quelle sentenze. In secondo luogo, quello che la Corte aveva cancellato erano norme considerate dalla stessa eccessivamente distorcenti l’impatto del voto, non però la dis-proporzionalità inerente di per sé a qualsivoglia legge maggioritaria. Né aveva escluso il doppio turno in quanto tale, ma solo quello di lista non quello di coalizione. Tenendo conto di quanto detto e dell’esaurirsi del tripolarismo sconfitto dalle vicende politiche degli ultimi tre anni e l’emergere ormai chiaro di un sistema bipolare, si apre una finestra di opportunità per il Parlamento al fine di scrivere una legge elettorale per una democrazia europea e dell’alternanza, la quale dovrebbe soddisfare tre precondizioni:

1. essere espressione non della maggioranza, come le due sanzionate dalla Corte, ma di un accordo possibilmente di tutte le forze politiche o almeno di quelle che sostengono il governo Draghi
2. garantire ai cittadini la scelta del partito che preferiscono
3. evitare di ricadere, per quanto questo può dipendere dalla legge elettorale, nel vizio di coalizioni fragili costruite dai partiti dopo il voto, che sono fra le cause principali dell’instabilità ormai intollerabile dei nostri esecutivi nel quadro europeo.

Una combinazione fra il voto popolare per il partito preferito e per la coalizione chiamata a governare è tecnicamente possibile. In altri termini un sistema che garantisca governi possibilmente stabili senza comprimere la rappresentanza di diverse opinioni politiche, come avviene invece con i maggioritari basati su collegi uninominali, dove difficile è oltretutto la scelta del candidato comune alla coalizione. La soluzione possibile, tenendo anche conto delle osservazioni della Corte Costituzionale, è quella di un sistema proporzionale che permetta, innanzitutto, agli elettori di esprimere la loro preferenza di primo ordine, o se si vuole le loro identità politica, scegliendo sulla scheda il simbolo di un partito e, quindi, ai partiti tutti di essere presenti nella assemblea che deve essere rappresentativa del corpo sociale e delle sue differenze. Questa prima scelta sarebbe combinata con quella della coalizione alla quale i partiti sceglierebbero di far parte. Concretamente, una scheda elettorale che accumuna i partiti vicini fra di loro in un unico voto per la coalizione ma distribuito proporzionalmente fra le componenti della coalizione sulla base della scelta degli elettori per il simbolo (e il candidato) del partito preferito all’interno della coalizione prescelta.

Si potrebbe immaginare inoltre che la coalizione che ottiene il miglior risultato, se e solo se superiore al 40%, usufruisca di un premio che le assegni una maggioranza leggermente superiore al 50%+1 dei seggi in Parlamento.
Nel caso in cui nessuna coalizione, concretamente oggi quella di centro destra o quella di centrosinistra, entrambe in grado di competere fra di loro, raggiunga quella soglia, al fine di evitare una disproporzione eccessiva legata al premio di maggioranza, le due coalizioni andrebbero al ballottaggio. In questo caso gli elettori deciderebbero del beneficiario del limitato premio di seggi. Dopo diversi tentativi di dare al paese una formula elettorale che combini rappresentatività e stabilità, un sistema come quello prospettato presenta il vantaggio in un quadro bipolare di garantire pluralismo, che evita la coercizione del voto, con la garanzia di un vincitore certo: la coalizione creata dai partiti e sostenuta dagli elettori. Non un potere assoluto della partitocrazia, come abbiamo visto dopo le elezioni del 2018, e neppure una svolta plebiscitaria che, col pretesto di una più autentica democrazia, lascerebbe agli elettori, senza mediazione dei partiti, la scelta della maggioranza e dell’esecutivo.

Una scheda che permetta la scelta del partito preferito nella coalizione proposta agli elettori, e un premio per la coalizione che ottenga al primo turno il maggior numero di suffragi superiore al 40% o che vinca al ballottaggio ha un vantaggio importante rispetto all’alternativa del sistema maggioritario di collegio. Mentre infatti nella formula elettorale delineata l’elettore che sceglie la coalizione decide al suo interno di votare per un candidato del partito da lui preferito, nel collegio uninominale, invece, può essere costretto a dare il suo voto ad un candidato scelto dalla coalizione che è espressione di un partito per cui non si sente di votare, al punto che potrebbe preferire astenersi.

Nel sistema delineato, all’elettore non viene tolta la possibilità di far valere con la scelta del partito la sua prima preferenza pur votando al tempo stesso per la coalizione alla quale il partito da lui preferito ha deciso di aderire.
Il sistema politico italiano ha bisogno di pluralismo e di stabilità. Ci vuole ancora uno sforzo bipartisan per creare una funzionante democrazia dell’alternanza, ora che tutti gli attori politici sembrano capire che il nostro destino è dentro l’Unione Europea.