L’emergenza sanitaria ha suscitato, in chi vive o lavora in carcere o al carcere guarda con un minimo di sensibilità, una serie di preoccupazioni note ai lettori. La risposta della politica e dell’opinione pubblica (che è il nome attribuito spesso a un “senso comune” plasmato da pregiudizi e disinformazione) è apparsa più risentita del solito: più sorda, più ritrosa; ma anche più sprezzante, più livorosa. Quale emergenza? Si è replicato con stizza. I rischi sono inferiori a quelli che corre la gente per bene, si sta andando alla caccia di fisime e pretesti per attentare al sacro dogma della “certezza della pena” (da dove mai verrà, questa insensatezza sbandierata con protervia pari all’ignoranza?). Insomma, le parole del rigore cieco e della vendetta ottusa si sono espresse con franca impudenza. Un tempo, per lo meno, si frapponeva lo schermo di un velo di pudicizia superstite, se non di pietà. Come ha potuto una pandemia inasprire a tal punto atteggiamenti che pure, negli ultimi anni, sembravano avere già raggiunto l’approdo a lidi selvaggi? Dalla pandemia – si ripete spesso con stucchevole retorica – usciremo migliori; ma per intanto siamo peggiorati assai, e quanto bruscamente. Una piccola riflessione non pare fuor di luogo.

Il carcere non si uniforma affatto (come si racconta mitologicamente) al criterio dell’extrema ratio nel senso che vi si faccia ricorso soltanto in casi estremi, ma a quello dell’estrema marginalità, nel senso che con il carcere si stabilisce e si assicura il peggiore trattamento possibile dei criminali (definiti tali con successo da parte delle istituzioni giudiziarie: tanto per ispirarsi, ribaltandola, a quella specie di logica secondo cui sono gli assolti ad avere successo). Peggiore trattamento possibile nei limiti della legalità, ovviamente, da intendersi, tuttavia, con amplissima relatività rispetto ai singoli ordinamenti, e con la massima elasticità rispetto a ciascuno di essi, dato che il carcere è un universo disciplinare tendenzialmente anomico e strutturalmente refrattario alla legalità. Per questo Mario Pagano, per stabilire il tasso di legalità di un paese sconosciuto, indicava un coefficiente sicuro e preciso: la visita delle carceri locali al lume del diritto. Da noi il tasso è notoriamente depresso, e in realtà capovolto: ne abbiamo ottenuto ampie certificazioni anche in sede internazionale. Più agevole allora sarebbe la misura del tasso di illegalità.

Ma perché deve consistere nel peggiore trattamento, se la pena deve in effetti tendere alla rieducazione, come pure stabilisce la nostra Costituzione? La risposta è semplice: il carcere non è fatto per rieducare e non può tendere a tale scopo. Per rispettare l’art. 27 della Cost. dovrebbe essere abolito. Da gran tempo ormai si è compreso che un’istituzione totale (che si occupa cioè di ogni attimo di tempo e di ogni centimetro di spazio di chi vi è rinchiuso) è strutturata in funzione del proprio ordine e della propria sicurezza, calati in un universo non retto da leggi, ma da una disciplina pervasiva e costante.

È in questo modo che si materializza la pena, che è necessariamente ed essenzialmente una sofferenza inflitta legalmente dal giudice, ed applicata discrezionalmente (quando non arbitrariamente) dall’amministrazione penitenziaria. Diceva Franz von Liszt, più di cent’anni fa, che il contenuto della pena lo fa solo il carceriere: non il giudice, né la legge. Non è davvero cambiato molto da allora. Una sofferenza, dunque, un patimento, un dolore: il sinonimo più appropriato è a scelta; forse tormento, qualche volta tortura. Se così non fosse, non sarebbe pena. La rieducazione è lo scopo dichiarato, la giustificazione addotta, certo; ma i lavori per realizzarla sono in corso, senza successo, da duecento cinquant’anni circa, e cioè da quando la detenzione ha assunto il dominio pressoché assoluto della penalità. Quanto a conseguirla… si è mai insegnato a camminare legando le gambe fino a spezzarle? Comunque, sia chiaro: la rieducazione non è vietata; può anche accadere. Ma per eterogenesi dei fini.

La pena è dunque una sofferenza intenzionalmente inflitta. Ma quanto grande deve essere concretamente, effettivamente? Quanto il dolore, quanto il patimento? Il tempo (due, tre, vent’anni) è solo una misura quantitativa legale; i contenuti effettuali sono ben altra cosa, e si orientano verso due soglie precise. La prima, necessaria a far sì che i reietti liberi, i diseredati, i miseri, gli ultimi insomma, possano, al pensiero dei carcerati (non alla vista: l’istituzione totale è sempre opaca) considerarsi penultimi, lieti della loro condizione e timorosi di perderla. La seconda, sufficiente a rassicurare i benpensanti che l’inferno c’è, che è in terra, e che è popolato dai (con) dannati, sperabilmente da tutti i (con) dannati, che vi pagano il fio delle loro colpe.

Arriva il coronavirus e provoca disastri sanitari tra gli stati del globo: un’infelicità universale. Ma vale per gli stati quel che si dice delle famiglie: tutte quelle felici si somigliano; quelle infelici lo sono ciascuna a modo suo. Qual è il modo italiano di essere infelici al tempo del coronavirus? Da noi la bestia ha trovato un ambiente congeniale e un clima favorevole. L’ambiente si identifica con l’assetto istituzionale, farraginoso e pedante, ipertrofico e sconnesso. Il titolo V della Costituzione (la cui sciagurata paternità è nota) ha trasformato l’Italia in un condominio rissoso e inconcludente, moltiplicando (ahinoi, anche in materia sanitaria) competenze e decisori: una sagra di conflitti positivi e negativi e una pletora di decisioni contraddittorie.

Quanto al clima di cui il virus ha potuto beneficiare, si tratta ovviamente della classe politica (e, più in generale, della classe dirigente): un compendio di figuranti che, per carità di Patria e nel suo complesso, può definirsi improbabile, altamente improbabile (ma purtroppo anche l’altamente improbabile accade). La farsa è nota, e non occorre insistere sulla miriade di aspetti sconcertanti che hanno accompagnato la recita della pièce. Deliberato il 31.01.2020 lo stato di emergenza sanitaria (che l’Italia era «prontissima» ad affrontare, secondo l’incauta e improvvida dichiarazione del Presidente del Consiglio), l’armamentario operativo messo in atto per contrastare l’epidemia si è risolto essenzialmente in restrizioni e limitazioni della libertà personale.

Indispensabili? Necessarie? Utili? Sufficienti? Adeguate? Eccessive? Insignificanti? Le opinioni in campo si sprecano e non è certo possibile a chi scrive prender partito in simili diatribe; è possibile solo registrare una confusione babelica di proporzioni inverosimili, sufficiente di per sé a suscitare gravi dubbi sull’affidabilità di reggitori e reggenti, vassalli e valvassori, scienziati e minutanti. A fronte della canea, il punto che balza agli occhi è che queste restrizioni e limitazioni della libertà personale sono state assunte con provvedimenti amministrativi di varia natura; ma comunque amministrativi. Quale la fonte? Impossibile rinvenirla nell’art. 32 Cost. che si occupa dei trattamenti sanitari (non delle misure preventive come l’obbligo di rimanere a casa) postula poi la «disposizione di legge» (che qui manca) e si riferisce a situazioni evidentemente singolari («Nessuno può essere obbligato…»: il signor nessuno è in concreto una singola persona).