Quando ero bambina, un pomeriggio, vidi un vecchio film che non riuscii a capire; ma qualche volta le cose che nell’infanzia non capiamo sono proprio quelle che ricorderemo poi meglio. Il film era Un tram chiamato desiderio, di Elia Kazan, dalla pièce di Tennessee Williams; c’era Marlon Brando in canottiera, che dava spesso in escandescenze, c’era un bianco e nero luminoso e c’era, soprattutto, un personaggio che avrei ricordato sempre, crescendo: Blanche DuBois, la bella che sfiorisce in un delirio di piccole, strazianti vanità frustrate.
Avrei ricordato anche una sua frase, di cui all’età che avevo allora, otto o nove anni mi sfuggiva, e ancora a lungo mi sarebbe sfuggito, il significato: ho sempre confidato nella gentilezza degli sconosciuti. Nel film, e nella pièce, la frase risuona di un presagio inquietante, legato alla sorte della povera Blanche; ma presa alla lettera, penso che sia una delle cose più belle che possiamo dire della nostra vita nel mondo. E così, crescendo, nella gentilezza degli sconosciuti ho confidato anch’io. E come un fiore che continuamente si rinnova, quella gentilezza è sbocciata: in mani tese quando ne ho avuto bisogno, in doni inaspettati. Una volta ho sbagliato treno e mi sono persa nel mezzo del Piemonte (guarda caso, la regione di origine di una nocciola che si chiama tonda gentile delle Langhe).
Ero disperata, ma qualcuno, che se leggerà queste righe spero senta ancora la mia gratitudine, si è sobbarcato un lungo tratto di strada per recuperarmi. A volte ho avuto paura, e ho trovato una voce che mi chiamava tesoro, anche se non ci conoscevamo: un modo per prendersi carico di quella paura, per renderla più leggera. La sollecitudine della gentilezza ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande. Che l’umanità, nostra e degli altri, è il segno di riconoscimento di una vulnerabilità condivisa; che esiste una possibilità di uscire dal conteggio dei favori fatti e ricevuti, dalle competizioni della furbizia.
Perché la gentilezza è gratuita, non attende nulla in cambio. Eppure richiama altra gentilezza, in un ciclo che si alimenta, ma non per automatismo: si alimenta della volontà di chi a quel ciclo partecipa, malgrado i cortocircuiti, malgrado gli inceppi delle passioni tristi. Oggi che David Sassoli non c’è più, lo si ricorda come un uomo, un giornalista e un politico, gentile: e nel ricordo della sua gentilezza – di lui che volle aprire le porte del Parlamento Europeo a senzatetto e a donne vittime di violenza – c’è lo stupore di constatare come sia inattuale, soprattutto in politica. Ed è strano: perché c’è un valore prettamente politico, sociale, egualitario, in questo atteggiamento a quanto pare così fuori moda.
Gentile, l’aggettivo, viene dal latino gentilis, a sua volta derivato da gens, ovvero “stirpe”. Etimologicamente è dunque più o meno un sinonimo di nobile: l’idea sottintesa è che chi viene da una buona famiglia, e perciò non conosce il ricatto del bisogno, è come se fosse indipendente dalla grettezza del calcolo. Ma questa è solo l’etimologia, contraddetta a gran voce dalla realtà, che ci conferma come la gentilezza non abbia nulla a che vedere con il benessere economico o sociale; anzi. Se oggi ci è naturale considerarla non un attributo legato alla classe sociale di nascita, ma all’indole e all’educazione, il merito, prima ancora che della Rivoluzione francese e del proclama dell’égalité che ci rende liberi, è di un gruppetto di poeti medievali. Che, nella Firenze di fine Duecento, si cimentarono con un nuovissimo stile poetico, il Dolce Stil Novo, cui aderì anche il giovane Dante; e liberarono l’aggettivo gentile dall’originario classismo. Ne fecero un patrimonio di tutti: un segno di uguaglianza e di parità, che oggi, forse, sarebbe opportuno riscoprire in questi termini, a costo di avere torto e offrirsi, disarmati, alle furbizie del mondo.
© Riproduzione riservata