Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, ex presidente di sezione penale in Cassazione, ex fondatore nel 2016 della corrente Autonomia&Indipendenza (ora scomparsa, ndr), ex consigliere del Csm, attualmente editorialista di punta del Fatto Quotidiano, querelerebbe a “scatola chiusa”. La quanto mai singolare circostanza è stata riportata domenica scorsa dal Giornale dando la notizia del deposito delle motivazioni dell’assoluzione, lo scorso giugno, di Paolo Mieli.
All’indomani dello scoppio del Palamaragate, l’ex direttore del Corriere della Sera aveva scritto – il 6 giugno del 2020 – un lungo articolo sulle colonne del quotidiano di via Solferino a proposito delle correnti delle toghe nel quale, fra l’altro, riportava una sintesi delle dichiarazioni rilasciate sul punto dallo stesso Luca Palamara durante la trasmissione televisiva In Onda su La7 di qualche giorno prima.

Intervistato da Massimo Giletti, Palamara aveva spiegato infatti come funzionava il sistema delle nomine dei magistrati al Csm, citando, scrisse poi Mieli, “il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione. Talvolta, ha lasciato intendere, d’accordo con l’uomo di maggiore rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente”. Immediata, come da copione, la reazione di Davigo che aveva presentato una querela per diffamazione aggravata a mezzo stampa (“non faccio queste porcherie”, disse Davigo, ndr) nei confronti del solo Mieli e non, stranamente, di Palamara a cui venivano attribuite tali dichiarazioni.
Dopo il rinvio a giudizio, il processo era stato assegnato al giudice Luigi Varanelli il quale – durante una delle udienza – aveva deciso di mostrare in aula il video della trasmissione incriminata, chiedendo quindi a Davigo quale fosse il passaggio “diffamatorio” poi riportato nella sintesi giornalistica di Mieli. Alla domanda del giudice Varanelli, Davigo era stato costretto ad ammettere di non aver mai visto prima di allora la trasmissione e di essersi basato, per presentare la querela nei confronti di Mieli, su quanto gli avrebbe riportato il proprio avvocato. Inevitabile, a quel punto, la richiesta di assoluzione del giornalista non solo da parte del difensore, l’avvocato Caterina Malavenda, ma anche da parte del pubblico ministero Paolo Filippini.

“All’ultima udienza l’avvocato di Davigo mi ha proposto un accordo, ho apprezzato il gesto ma l’ho rifiutato. Ho preferito rischiare la condanna che fare pari e patta, e per un motivo semplice. La denuncia di Davigo non era contro l’articolo che ho scritto ma contro di me, contro il mio ruolo di direttore del Corriere della Sera e contro le cose che ho scritto in questi anni sulla giustizia italiana”, aveva dichiarato soddisfatto Mieli, a cui l’ex pm di Mani pulite aveva chiesto 15mila euro, al termine del processo.
La querela di Davigo comunque si inserisce nel solco di quelle presentate in questi anni da decine di magistrati che, chiamati in ballo da Palamara, hanno deciso di fare terra bruciata nei confronti dei giornalisti che avevano osato riportare quanto dichiarato dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. L’elenco è sterminato. Fra le denunce al momento archiviate merita di essere segnalata quella di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e toga di punta della corrente progressista Area, e quella di Luigi De Ficchy, ex procuratore di Perugia. Il primo aveva denunciato i giornali che avevano pubblicato le sue chat con Palamara, accusando i giornalisti di aver ordito una manipolazione o falsificazione, ovviamente non vera, delle stesse. Il secondo invece si era scagliato direttamente contro questo giornale che si era limitato a riportare fedelmente quanto affermato durante un interrogatorio dal faccendiere Piero Amara nei suoi confronti davanti ai pm di Milano a proposito della loggia Ungheria, e quanto dichiarato da Palamara alla Commissione parlamentare antimafia nel 2021. Archiviando la denuncia di De Ficchy, il giudice Valentina Giovanniello del Tribunale di Napoli aveva sottolineato che il contenuto eventualmente diffamatorio va attribuito ai dichiaranti e non ai giornalisti, in quanto ciò da quest’ultimi riportato trova fondamento non solo “nella verità del fatto oggetto della dichiarazione ma anche dalla verità del fatto della dichiarazione stessa che è di per sé di interesse pubblico, indipendente dalla verità del fatto dichiarato, perché resa da soggetto qualificato”.

Quello che non stupisce è l’estrema facilità con la quale si presentano querele, ben sapendo di non subire alcuna conseguenza in caso si dimostri la loro infondatezza. I magistrati, come riportato poi in una recente ricerca edita da Giure da parte dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich, sono la categoria professionale che denuncia in assoluto più di tutte le altre.