I trenta giorni che sconvolsero il mondo. È questa la sensazione che si ha a un mese dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Tra ordini esecutivi, aggressività in economia e fughe in avanti in politica estera, il “ciclone Trump” ha già lasciato il segno. «Attenzione a non confondere il rumore di superficie con la colonna sonora, però». Dice Arrigo Sadun, già Direttore esecutivo per l’Italia ed altri paesi Europei all’Fmi. «Più ci si allontana dal centro decisionale, più la percezione degli effetti reali delle misure trumpiane appare fuori portata». Lo spiega dai suoi uffici di Washington intervenendo al webinar “L’America di Trump e il nuovo ordine internazionale”, promosso da Faro Club, community di imprenditori e professionisti, dedicata al risk management e alle politiche di ottimizzazione degli acquisti di materie prime.

L’Europa sarebbe la vera fautrice di questo fraintendimento. Tuttavia, serve un distinguo. Lo smantellamento delle politiche di Biden ha dato una spallata alla crisi (già in atto) della globalizzazione. «Di fronte a questo però – spiega Sadun – è prematuro definire con chiarezza i nuovi rapporti finanziari e commerciali che Trump vuole instaurare. Nella sua natura di businessman combattivo, al momento siamo alla dimostrazione di una posizione negoziale di forza, che non necessariamente coinciderà con gli obiettivi finali».

Tesi, questa, già suffragata dalle politiche tariffarie. Trump è partito in attacco contro il Canada e il Messico, promettendo l’introduzione di dazi al 25% sulle importazioni. Da lì si è poi avviata la trattativa. Le previsioni sono che si chiuderà con l’applicazione di un regime generalizzato del 10% e applicato sulla base di reciprocità. Prodotti europei inclusi. «Con questo non voglio dire che il rischio dei dazi non esista. Ma che va contestualizzato nell’obiettivo che il Presidente Usa si è dato. Vale a dire la crescita economica dopo gli anni di Biden».
Famosa, a questo proposito, è la “serie dei 3”: 3% per la crescita, 3% per il deficit (attualmente intorno al 7%) e 3 milioni di barili aggiuntivi nella produzione domestica di petrolio.

La chiave di lettura, fortemente diversa rispetto a quella dominante, viene confermata dagli operatori dell’economia reale. Paolo Kauffmann, Ceo di Matherika Group, osserva che Trump o no, il mercato delle materie prime sta tornando al bel tempo.  «Alluminio, meccanica di precisione e aviazione hanno già imboccato questa fase», spiega. «La vera minaccia resta l’energia. Personalmente ho dei dubbi sul successo della campagna “drill baby drill”. Non fosse altro perché gli ultimi studi dichiarano che le nuove estrazioni avrebbero bisogno di un prezzo di almeno 65 dollari al barile per essere a pareggio. Se la previsione fosse confermata, sarebbe difficile per le compagnie imbarcarsi in ampliamenti di capacità».

Sadun è della stessa idea, però invita a riflettere sul fatto che A) la questione estrazioni è uno strumento geopolitico per mettere in difficoltà l’Iran; B) il problema non è petrolio ma la disponibilità di gas. Fonte che gli Usa stanno già esportando. «Ora – continua Sadun – alle politiche doganali ed energetiche, dobbiamo affiancare la riduzione delle tasse: altro caposaldo trumpiano. Entro il 2026, il Tesoro deve rinnovare gli sgravi fiscali che scadono per quella data. Il costo è di 4 trilioni di dollari. Si aggiungono le detassazioni promesse in campagna elettorale. Un trilione di dollari». Se le cose vanno come previsto, dai dazi sarà possibile un income di 4 trilioni di dollari per i prossimi dieci anni, cui si aggiunge una riduzione spesa pubblica, come prevista dal progetto Doge di Musk, della portata di un miliardo di dollari. «Quest’ultimo punto è improbabile», osserva Sadun, che però ritiene la manovra così com’è sufficiente per soddisfare l’elettore.

Il tutto al netto dei negoziati Ucraina-Russia. La tregua darebbe nuovo ossigeno all’economia internazionale. Tornerebbero a girare commodity e scambi commerciali bloccati da tre anni di conflitto. In più ci sarebbe l’Ucraina da ricostruire. «Il Paese avrà bisogno di acciaio. Di cui peraltro è già fornitore», spiega Romano Pezzotti, Amministratore Delegato di Fersovere Srl, impresa specializzata nella trattazione del rottame ferroso. «La carenza di rottame e il caro-energia non sono problemi risolti. Tuttavia, il nostro è un settore tornasole del manifatturiero. E posso dirmi moderatamente ottimista».

Qual è quindi il problema? O meglio, dov’è? «Non qui a Washington», scherza Sadun. «Ma da voi in Europa». L’Ue per Trump è come l’establishment democratico che ha in casa: vecchio, elitario, costoso, improduttivo. Per questo va dismesso. «Gli Usa però non possono fare a meno dell’Europa. Le chiedono il conto, d’accordo. Ma nel progetto di ricostruzione dell’economia e di egemonia globale l’alleanza sarà preservata».